Il costo del sindacato | Il caso Sicilia (seconda puntata) - Live Sicilia

Il costo del sindacato | Il caso Sicilia (seconda puntata)

Qual è in Sicilia - ecco un altro tema inesplorato - il costo totale dei permessi cumulati dall'intero mondo sindacale, a carico questa volta delle istituzioni e delle imprese (pubbliche o private che siano)?

Le cifre sul costo del sindacato, passate in rassegna nella prima puntata, soffrono di gradi di approssimazione, e non sono quantificabili per regione. I sindacati – insistiamo – non sono tenuti infatti a tenere una contabilità “trasparente” ( cioè a disposizione di tutti) che potrebbe servire anche a misurare efficienza e regolarità del servizio erogato con riferimento a singole aree territoriali. Proviamo a sollevare qualche domanda per infrangere l’opacità dell’informazione su questo tema. Prendiamo il caso della Sicilia, terra di inchieste giornalistiche. Temi prediletti: la “cattiva” autonomia, i rapporti tra mafia, politica ed economia, la corruzione, gli sprechi della spesa regionale, il rapporto abnorme tra dirigenti e dipendenti pubblici, il numero fuori controllo di precari e pseudo precari. Un inviato che arriva nell’Isola ed intende fare un servizio da prima pagina per il suo giornale ha l’imbarazzo della scelta per aggiungere frecce al martirio quotidiano che subiamo, ovviamente anche per nostre responsabilità, colpe, ignavie. Eppure, a ben vedere, c’è qualcuno che è rimasto sempre fuori da ogni valutazione, calcolo dei costi per sostenerne l’esistenza, ipotesi di spending review, indagine sull’efficacia del suo esistere: il sindacato. Intendiamoci bene.

Al sindacato dobbiamo moltissimo. Se oggi lavoriamo otto ore al giorno (e non sedici), abbiamo il diritto al riposo per malattia (stare a casa, pagati, per guarire), alle ferie retribuite, ai permessi per studiare, lo dobbiamo ad una entità che è fondamentale nel mercato del lavoro: appunto, il sindacato. Che, nell’immediato dopoguerra, nella nostra Isola, seppe condurre le classi contadine al riscatto anche contro poteri mafiosi. Che è sempre presente nell’informazione, commenta quotidianamente ogni sia pur lievissimo sommovimento della politica, offre mediazioni, tavoli, sostegno; minaccia proteste, sit-in, sollevazioni. Fa il suo mestiere, insomma. Messo in difficoltà dall’essere fuori dai giochi in alcune filiere produttive anche per mancanza di solidarietà con la gerarchia sindacale del Nord (il caso di Termini Imerese è l’illuminante esempio, anche se il caso di Gela sembra recuperare un rapporto sia pur minimale) ma soprattutto nella galassia del lavoro giovanile autonomo. Una platea che non ha alcuna voglia di sindacato. La rappresentanza per tutti loro finisce col confluire semmai nella Rete, un posto in cui puoi denunziare cos’è che succede sperando che a difendere i tuoi diritti sia l’indignazione degli internauti (D. Di Vico, Il sindacalismo perde la bussola, Corriere della Sera, 28 Luglio 2014).

Il paradosso sta nel fatto che sulla micro-economia del sindacato, in quanto organizzazione fondata su regole democratiche, in parte autofinanziata, in parte sostenuta economicamente dallo Stato, come si è detto, si sa poco. Qualche esempio. Da tempo le retribuzioni regionali sono sotto lente di ingrandimento. Ma quanto guadagnano i rappresentanti sindacali a tutti i livelli è parametro sconosciuta. Non per colpa loro, ma perché – e qui sta il mistero – nessuno si è mai preoccupato di chiederlo o di appurarlo. Così come non sappiamo, oltre le tre sigle tradizionali, quanti sindacati autonomi esistono, ad esempio, in Sicilia, con quanti iscritti, con quale grado di rappresentanza nel loro settore e con quali costi per la collettività. Difficili da monitorare nella nostra Isola, sia pur ipoteticamente redatti nella più integerrima legalità, i bilanci dei sindacati, il numero di addetti nelle varie segreterie, il numero di distacchi sindacali, i metodi di reclutamento, assunzione, retribuzione.

Esistono documenti che in assenza di ricerche ci diano dati convincenti sui nuovi “soggetti” del sindacato: immigrati e consumatori? Qual è in Sicilia – ecco un altro tema inesplorato – il costo totale dei permessi cumulati dall’intero mondo sindacale, a carico questa volta delle istituzioni e delle imprese (pubbliche o private che siano)? La carriera sindacale offre, nella nostra come in altre regioni, dei privilegi: poltrone negli enti, in barba alla regola aurea della totale separazione tra sindacati e partiti, rappresentanze nel pianeta della previdenza, spesso per i leader seggi parlamentari. Rendite anche in campi insospettabili: grazie ad uno speciale progetto i sindacalisti in quanto tali con specifiche convenzioni hanno provato ad acquisire crediti nei corsi di un Ateneo siciliano e, se le trattative andranno a buon fine, nelle università telematiche. Privilegi assegnati di certo in base alla meritocrazia, ma di quali sarebbe opportuno che qualche ufficio studi o addetto stampa fornisse una mappa sicula. Il continuo parlare di trasparenza consiglierebbe di far conoscere, anche se in teoria si tratta di strutture autonome, quanti patronati agiscono in Sicilia svolgendo – finanziati dallo Stato – funzioni preziose che spesso però determinano rapporti clientelari così come i Caf (Centri di Assitenza Fiscale che assistono nelle dichiarazioni dei redditi), ricevendo contributi dallo Stato ed un obolo dai “clienti”, ovviamente reclutabili a vista tra i nuovi iscritti.

Materia sconosciuta al grande pubblico, anche se sotto un profilo di spending review andrebbe esaminata in filigrana. Scrive S. Liviadiotti (L’ altra casta, Bompiani 2008), uno dei pochi giornalisti che ha indagato sulla questione: i Centri di Assistenza fiscale dei sindacati, hanno milioni di clienti. Così incassano una montagna di soldi, tutti esentasse. E intanto reclutano nuovi iscritti, con un sistema condannato dalla Corte di Giustizia Europea e difeso con le unghie da CGIL, CISL ed UIL. Peraltro, grazie anche ai patronati, si garantisce – viene lamentato – da circa trent’anni alla stessa classe dirigente di gestire e mantenere il potere dentro l’organizzazione sindacale impedendo alle minoranze di trovare spazi di crescita. Infatti, è proprio attraverso i patronati (che garantiscono migliaia di pensionati iscritti per ricevere i servizi di assistenza gratuita, pagata dallo Stato) ed ai numerosi dipendenti pubblici iscritti (che usano, sì, il sindacato per difendere dei diritti, ma talvolta anche per assicurarsi autorevoli “protezioni” e accedere a privilegi), che le vecchie classi dirigenti dei sindacati, detentori di cospicui pacchetti di tessere, rendono di fatto impossibile per qualsiasi altro rappresentante di categorie, senza dubbio più produttive di quelle prima accennate, “scalare” l’organizzazione e “rottamare” i vecchi gruppi dirigenti. Forse sarebbero salutari anche per i sindacati e la collettività le riforme fiscali e della Pubblica Amministrazione proposte dal Governo Renzi, che riducono i distacchi e rendono meno necessari i patronati. Ma la svolta per queste istituzioni, ribadiamo, fondamentali per la democrazia nel mercato del lavoro, arriverà quando cambieranno le proprie regole di selezione della classe dirigente. Se anche i sindacati scegliessero i loro leader con le Primarie, ricostruirebbero un rapporto col mercato del lavoro meno clientelare, cercando di rappresentare anche quel grande mondo del lavoro atipico e del non lavoro che fino ad oggi non hanno mai cercato, e probabilmente peserebbero molto meno sulle finanze pubbliche in relazione al ruolo sempre più ridimensionato che oggi viene ricoperto. L’esistenza dei sindacati è preziosa e non discutibile; i costi della loro organizzazione sacrosanti, ma forse passibili di opportuni “tagli”, con una contemporanea eliminazione di quelle che sembrano configurarsi come vere e proprie rendite.


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