Eritreo accusato ingiustamente |Scagionato dopo 8 anni, ha perso tutto - Live Sicilia

Eritreo accusato ingiustamente |Scagionato dopo 8 anni, ha perso tutto

L'avvocato Carlo Emma

Questa è una storia che dimostra come, a volte, la giustizia possa essere ingiusta. E anche se dopo anni di indagini la verità trionfa, resta poco per cui valga la pena sorridere.

PALERMO - IL CASO
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PALERMO – Questa è una storia che dimostra come, a volte, la giustizia possa essere ingiusta. E anche se alla fine, dopo otto anni di indagini, la verità trionfa resta poco per cui valga la pena sorridere. Perché questa è soprattutto una storia di dolore e macerie. Macerie umane.

Tutto comincia nel febbraio 2006. Araya Ghebrebiran è un eritreo di 36 anni. È sbarcato in Sicilia nel 2005 con un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Un giorno di otto anni fa si presenta alla polizia ferroviaria. Ha assistito ad una rissa. Da testimone, però, diventa indagato. L’uomo racconta di essere stato invitato da un marocchino a riferire agli agenti l’episodio a cui ha assistito due sere prima. E così ricostruisce di avere visto due gruppi di ragazzi eritrei e marocchini fare a botte. Botte pesanti nate da screzi per motivi religiosi. Aggiunge che, ad un certo punto, ha deciso di scappare temendo di restare coinvolto nella rissa.

Davanti ai poliziotti, però, accade l’imponderabile. Il marocchino che lo ha invitato a testimoniare diventa il suo accusatore. Gli punta il dito contro, sostenendo che Araya sia uno dei due rapinatori che lo hanno aggredito due sere prima. E così Araya si ritrova in stato di fermo per rapina a mano armata, consumata nei vicoli del centro storico. Araya avrebbe minacciato una delle vittime con una bottiglia di vetro rotta, in modo da consentire ai suoi tre complici di rubare il giubbotto e il portafogli a due ragazzi marocchini.

Convalidato il fermo, l’eritreo viene poi raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare. Ed entra all’Ucciardone. In cella ci resterà per un anno intero. Gli avvocati avanzano quattro richieste di scarcerazione, due al Riesame e due al giudice per le indagini preliminari. Tutte respinte. Il riconoscimento da parte della vittima pesa come un macigno.

Nel 2007, l’avvocato Carlo Emma prende a cuore la storia giudiziaria di Araya. Lo incontra in carcere, si fa raccontare la vicenda con l’aiuto di un traduttore e raccoglie alcune testimonianze sfruttando la possibilità di fare indagini difensive. Alcuni clienti di un pub confermano la versione della lite iniziata per motivi religiosi, ma negano che sia stata commessa una rapina e soprattutto che Araya vi sia stato coinvolto.

Si arriva lo stesso alla richiesta di rinvio a giudizio che, però, su istanza della difesa, viene dichiarata nulla perché non tradotta in lingua eritrea. Bisogna ripartire dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Nel frattempo Araya viene scarcerato per scadenza dei termini di custodia cautelare. Sembra la fine di un incubo. Sembra, appunto, perché in virtù della richiesta di rinvio a giudizio la Questura gli nega il rinnovo del permesso di soggiorno. Eppure la richiesta che è stata dichiarata nulla, non gli è più stata notificata. Araya non ha più un lavoro.

La lontananza si fa sentire. In Eritrea Araya ha una moglie e tre figli che vorrebbero raggiungerlo in Italia. E tentato il gesto disperato di affrontare un lungo viaggio che si ferma, forzatamente e per un anno, in un campo profughi in Sudan. Araya ha paura. Sa cosa può volere dire per una donna la permanenza in un campo profughi.

La battaglia giudiziaria prosegue. Le prove si sfaldano. Dopo due istanze di archiviazione, pochi giorni fa, il caso viene chiuso. Araya non ha commesso quella maledetta rapina. Nel decreto si dà atto dell’inattendibilità del testimone dell’accusa, della irritualità delle operazioni di riconoscimento eseguite in assenza del difensore e non ripetute in fase di incidente probatorio, della irreperibilità dei due marocchini vittime della rapina.

“Ci son voluti otto e più anni per far prendere atto di una verità sotto gli occhi di tutti – racconta con tristezza l’avvocato Emma -. Otto anni che varrebbero forse a fare dell’esperienza italiana di Araya un romanzo degno di Sciascia o di Camilleri, ma è tutt’altro che un romanzo”.

Araya oggi ha 43 anni e sta cercando di raccogliere i cocci di una vita. Con tutte le forze che gli restano. Ha ottenuto finalmente il permesso di soggiorno e ha ripreso i contatti con i suoi familiari che, nel frattempo, sono tornati in Eritrea. Araya spera di poterli presto raggiungere per riabbracciarli. “L’Italia non gli ha regalato alcuna speranza di vita nuova – conclude il legale – anzi gli ha tolto quella che aveva. Prima, però, lo Stato dovrà dirci quanto vale un anno di detenzione ingiusta di un immigrato”.


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