Collezionisti d'incarichi e anomalie |Antimafia: ombre sui beni confiscati - Live Sicilia

Collezionisti d’incarichi e anomalie |Antimafia: ombre sui beni confiscati

Non solo i veleni del caso Montante. Il tema del destino dei beni sottratti alla criminalità presenta una serie di nodi. E un dossier dell'Antimafia ne segnala un elenco significativo.

PALERMO – Beni confiscati e veleni. L’ultimo capitolo della saga ieri all’Assemblea regionale, dove si è appreso di un dossier su presunte anomalie che l’Antimafia sta per inviare alle autorità competenti. Nello Musumeci, presidente della commissione, mantiene un riserbo strettissimo. “Non possiamo dire più di quanto già esposto in conferenza stampa”. Il tema è delicato e “caldissimo”. Fili ad alta corrente, che pochi fin qui si sono azzardati a toccare. Si parla di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Un sistema che “ha mostrato delle lacune e delle storture, in alcuni casi anche fisiologiche”, commenta Fabrizio Ferrandelli, vicepresidente dell’Antimafia regionale. La commissione ieri è stata impegnata nell’audizione del prefetto Umberto Postiglione, direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata. Quella stessa Agenzia alla quale nei giorni scorsi il governo aveva nominato il leader confindustriale Antonello Montante, invitato da alcune parti a fare un passo indietro dall’incarico dopo la notizia dell’indagine per mafia a suo carico. Di certo c’è che i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata sono un patrimonio sconfinato: quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. E tra le voci che hanno sollecitato il passo indietro di Montante, che indiscrezioni di stampa danno più vicino, c’è stata anche quella di Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti: una voce pesante nella galassia del movimento antimafia, alla testa di un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. Libera non gestisce direttamente i beni confiscati, ma promuove i percorsi di riutilizzo dei beni.

Tema caldo quello della gestione dei beni sequestrati e confiscati. E controverso. Proprio ieri Musumeci, presidente della commissione Antimafia regionale, ha annunciato un dossier contenente alcune denunce raccolte dalla commissione parlamentare dell’Assemblea nel corso di audizioni su presunte anomalie nelle amministrazioni giudiziarie di beni confiscati e sequestrati alla mafia. “Dopo avere completato le trascrizioni – ha detto Musumeci – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria”. Quali anomalie? “In alcuni casi abbiamo ricevuto denunce di incompatibilità, eccessiva concentrazione di incarichi, in altri tentativi di favorire società o studi professionali vicini all’amministratore”. Presunte anomalie denunciate in alcune audizioni, che hanno attirato l’attenzione dell’Antimafia regionale e che adesso la commissione segnala alle magistratura e al ministero dell’Interno.

È l’ennesima richiesta di far luce su un sistema che potrebbe avere più di una falla, e la cui gestione ha creato profonde spaccature. L’apice dello scontro, ad esempio, si raggiunse nel marzo scorso quando il prefetto Giuseppe Caruso, poco prima di lasciare la direzione dell’Agenzia, sollevò un polverone denunciando la “gestione ad uso privato” dei beni da parte di alcuni amministratori giudiziari scelti dai Tribunali. In realtà Caruso aveva in precedenza  già espresso la sua posizione in più di un’occasione. Ad esempio davanti alla Commissione nazionale antimafia sotto la presidenza di Giuseppe Pisanu. Successivamente ne venne fuori un durissimo braccio di ferro vinto dalla magistratura con l’appoggio “incondizionato” della politica. Un appoggio che si concretizzò nella due giorni di visita siciliana della Commissione nazionale antimafia nel frattempo passata sotto la guida di Rosi Bindi. Allora il vice presidente, Claudio Fava, definì “bizzarro” il comportamento di Caruso. Bizzarra sarebbe stata soprattutto la tempistica delle dichiarazioni dell’allora direttore dell’Agenzia. E tenera non era stata neppure la presidente Bindi: “Sono affermazioni che possono delegittimare un intero sistema. Da Caruso non abbiamo avuto, però, risposte esaurienti. Non abbiamo dati che possano inficiare condotte delle singole persone, precisando però che alcuni aspetti di legge, come quelli delle professionalità degli amministratori giudiziari, vadano modificati. La delegittimazione sommaria dei poteri pubblici non serve a nulla ma aumenta il consenso delle mafie”. In realtà Caruso sul punto aveva sostenuto di non volere certo delegittimare il lavoro della magistratura, ma segnalare l’inopportunità che gli amministratori giudiziari fossero anche presidenti dei consigli di amministrazione delle società, molte delle quali non passavano e non passano dal sequestro alla confisca.

Di certo, per stessa ammissione della Bindi, il sistema andava e va cambiato, pur rispedendo al mittente le accuse di chi lo definiva fallimentare. A cominciare dall’istituzione di un albo degli amministratori giudiziari (“E’ impossibile che ancora non esista”), dall’esigenza di coinvolgere figure professionali specializzate (“Non bastano un avvocato e un commercialista per gestire un bene mafioso”), e dalla necessità di rivedere le norme (“La legge va cambiata, ma questo è un compito che deve assumersi il Parlamento”).

Caruso parlò anche degli amministratori pigliatutto, quelli che accumulano una serie di incarichi di gestione, tutto con costi a carico delle aziende stesse. Ed è questa una delle presunte anomalie segnalate nel dossier dell’Antimafia regionale. Perché se l’attenzione del prefetto Postiglione nelle dichiarazioni di ieri si è concentrata sui beni immobili (venderli alla Cassa depositi e prestiti per far cassa e investire in alloggi popolari la proposta), il tema ancora più delicato è quello del destino delle aziende che finiscono sotto sequestro e confisca, affidate alla cura di amministratori nominati dai magistrati, amministratori i cui compensi gravano sui conti delle aziende. Anche la Cgil siciliana qualche mese fa cercò di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso. “Non può passare il messaggio che arriva lo Stato e si perde il lavoro, sarebbe un fallimento, un segnale pericoloso, è per questo che occorre fare in modo che le aziende non chiudano e che l’occupazione non vada perduta”, diceva nel dicembre 2013 il segretario regionale Michele Pagliaro. Il sindacato parlò di 80 mila lavoratori “rimasti disoccupati in seguito ai provvedimenti giudiziari” proponendo nuove norme a disciplina del sistema. “Il problema che oggi si pone – osservava Pagliaro – è quello di aggiornare la normativa, perché è un dato di fatto che il 90% delle aziende sequestrate e confiscate (1.708 quelle confiscate in via definitiva concentrate i sei regioni tra cui la Sicilia) fallisce, lasciando per strada molti disoccupati (80 mila in Italia), perché drammaticamente i tempi della giustizia e dei percorsi di riuso la maggior parte delle volte non sono compatibili con quelli del mercato”.

Lo Stato, in soldoni, non è un buon socio di maggioranza. La difficoltà di accedere al credito, l’obbligo di rispettare ogni formalità burocratica, la sacrosanta regolarizzazione dei dipendenti che prima lavoravano in nero sono spesso scogli insuperabili. Un’impresa che passa sotto l’ombrello della legalità si scontra con la dura realtà di un mercato che favorisce chi opera nella scarsa trasparenza. Risultato: le aziende confiscate chiudono e i dipendenti perdono il lavoro. La cronaca è piena di esempi e così l’insofferenza per il sistema diventa rabbia nelle parole di alcuni lettori di Livescilia che nei commenti raccontano la propria esperienza diretta (chi parla di un anno di stipendi arretrati, chi della chiusura dell’azienda) e attaccano la gestione degli amministratori giudiziari, spingendosi fino all’affermazione che “la correzione del male è peggio del male stesso”. A loro Musumeci rivolge le sue conclusioni: “Stiamo elaborando, insieme con la commissione Lavoro dell’Ars, una proposta di modifica della legge nazionale vigente ponendo particolare attenzione a due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”.


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