Mafia di San Lorenzo, 20 condanne | In cella ex gestore bar dello stadio - Live Sicilia

Mafia di San Lorenzo, 20 condanne | In cella ex gestore bar dello stadio

Gli imputati erano 17 tra presunti capimafia, gregari ed estorsori delle cosca retta, secondo l'accusa, da Giulio Caporrimo. Sentenza ribaltata per Giovanni Li Causi e Matteo Inzerillo, assolti in primo grado. I giudici, dopo la condanna, ne hanno disposto l'arresto immediato. Il primo gestiva il bar dello stadio. Il secondo, ex dipendente Amat, sarebbe legato al clan di Passo di Rigano e agli "scappati" della guerra di mafia.

mafia, Palermo
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PALERMO – Una raffica di condanna al processo d’appello. Compresa quella ad otto anni inflitta a Giovanni Li Causi, ex gestore del bar all’interno dello stadio Barbera e a Matteo Inzerillo. In primo grado erano stati assolti e scarcerati. Ora i giudici che hanno ribaltato la sentenza ne hanno disposto l’arresto immediato, eseguito dai carabinieri del comando provinciale e del Ros.

Alla sbarra c’erano i presunti rappresentanti del clan di San Lorenzo. A cominciare da Giulio Caporrimo – ha avuto dieci anni – che avrebbe raggiunto un livello tale di autorevolezza da potere convocare la più importante riunione della Cosa nostra palermitana degli ultimi anni.

La corte d’appello ha condannato gli imputati complessivamente ad un secolo e mezzo di carcere. La pena più alta è stata inflitta a Caporrimo. Poco di meno, 9 anni e 10 mesi, per Calogero Di Stefano. Giuseppe Salamone ha avuto 8 anni e 8 mesi, Vincenzo Di Blasi 8 anni e 6 mesi. Entrambi erano accusati, oltre che dell’associazione mafiosa, anche delle estorsioni a pizzerie e bar palermitani. Nove anni a Giovanni Bosco. Otto anni a Matteo Inzerillo, considerato uno di spicco del clan di Passo di Rigano e imparentato con i boss che furono costretti a scappare durante la guerra di mafia degli anni Ottanta. Condannati a 7 anni e 2 mesi Antonino Vitamia. Stessa pena, 6 anni e 8 mesi, per Michele Coccellato, Ugo Delis, Fabio Gambino, Sandro Diele, Filippo Pagano. Poco meno, 6 anni e 4 mesi, per Andrea Luparello, Giuseppe Enea, Amedeo Romeo, Giuseppe Serio, Stefano Scalici. Infine, 3 anni e 4 mesi per Giuseppe Cardovino. L’unico assolto è Ignazio Mannino.

Giulio Caporrimo era uscito dal carcere nell’aprire 2010 dopo avere scontato una lunga condanna per mafia. Un istante dopo sarebbe diventato il nuovo capo della cosca. Era scontato che fosse lui a riprendere in mano il potere. Lo sapevano tutti, anche i carabinieri. La vita di Caporrimo era così finita sotto controllo. I militari del Reparto operativo e del Nucleo investigativo non lo hanno mai perso di vista fino al giorno del nuovo arresto, nel novembre 2011. Un mega blitz interforze per un totale di 36 ordinanze di custodia cautelare in carcere per boss e gregari dei clan di San Lorenzo, Passo di Rigano e Brancaccio. Fedelissimo dei Lo Piccolo, Caporrimo aveva costruito in carcere i presupposti per dettare legge fuori. Si era preparato il terreno delle alleanze. A Palermo e non solo. Aveva condiviso, infatti, la cella con Epifanio Agate, figlio di Mariano, capomafia di Mazara del Vallo. Caporrimo sapeva che gli equilibri erano cambianti. “Per ora ormai iddi comandano a noi altri… e sto cercando se loro si fanno sentire”, diceva riferendosi ai mafiosi trapanesi con cui aveva aperto un dialogo. E aveva stretto amicizia pure con la criminalità organizzata calabrese e pugliese. E con i “napoletani appartenenti agli amici nostri” che distingueva dagli “scissionisti”, che definiva “quattro scappati di casa… di Scampia”.

Ufficialmente Caporrimo gestiva, assieme alla sorella Caterina e al padre Francesco, la lavanderia industriale Oscar in via Partanna Mondello. L’attività commerciale forniva il tovagliato a ristoranti ed alberghi. Vista la caratura criminale del personaggio, vantava una sorta di diritto di prelazione sulle forniture a Tommaso Natale e dintorni. Non aspettava altro che tornare libero per seguire, in prima persona, gli affari fino ad allora delegati al padre. E avrebbe messo gli occhi e le mani sul centro commerciale che Maurizio Zamparini stava costruendo allo Zen. Da lui doveva passare ogni decisione. Venne fuori che i boss di San Lorenzo avrebbero controllato le assunzioni e l’affitto degli spazi espositivi nel centro commerciale. Il patron rosanero, parte lesa in tutta la vicenda, si era affidato a una ditta milanese, “agganciata”, secondo l’accusa, da un uomo del clan. E cioè Giovanni Li Causi, unico assolto al processo di primo grado, ma ora condannato e arrestato.

Sistemate le faccende interne, Caporrimo si sarebbe intestato anche la ristrutturazione dell’intera Cosa nostra palermitana. A cominciare dai rapporti con gli altri mandamenti. E così organizzò nel febbraio 2011 il grande vertice a Villa Pensabene, noto ristorante-maneggio allo Zen. Poco dopo sarebbero scattate le manette per trentasei persone. Sarebbero stati colpiti al cuore i mandamenti di Tommaso Natale-Resuttana, Brancaccio e Boccadifalco Passo di Rigano. A Villa Pensabene il 7 febbraio 2011 c’erano, tra gli altri, pezzi oltre a Caporrimo, Giovanni Bosco, Giuseppe Calascibetta (che sarebbe stato poi ammazzato), Salvatore Seidita, Alfonso Gambino, Gaetano Maranzano, Amedeo Romeo, Stefano Scalici, Cesare Lupo, Nino Sacco e Giuseppe Arduino. E c’era pure Inzerillo, fino ad allora un insospettabile dipendente dipendente dell’Amat. Uno “scappato” che partecipava al più importante summit di mafia degli ultimi anni: un particolare importantissimo su cui ancora oggi gli investigatori lavorano per capire di cosa si discusse nel maneggio.

Oggi è arrivata a sentenza la fetta di indagini che riguardava soprattutto  il clan di San Lorenzo, allora coordinata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai pubblici ministeri Francesco Del Bene, Gaetano Paci, Annamaria Picozzi, Lia Sava e Marcello Viola. Le condanne sono scontate di un terzo per via della scelta  del rito abbreviato.

 


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