"Incubo pizzo per un costruttore" | Undici condanne in appello - Live Sicilia

“Incubo pizzo per un costruttore” | Undici condanne in appello

Da sinistra Gianpaolo Corso, il fratello Gioacchino, Francesco Francofonti, Antonino Sacco

Sotto processo alcuni affiliati al clan mafioso di Santa Maria del Gesù. Le microspie svelarono lo sfogo dell'imprenditore costretto a pagare la protezione di Cosa nostra per non avere guai nei cantieri.

PALERMO – Qualche riduzione di pena e un solo annullamento. Per il resto regge l’impianto accusatorio della Procura e arrivano undici condanne. Gli imputati erano dodici, alcuni dei quali considerati legati al clan di Santa Maria del Gesù. Avrebbero reso impossibile la vita di un imprenditore costretto per anni a pagare il pizzo, fino a quando non decise di denunciare.

La condanna è stata annullata per Dario Corso – un difetto di notifica ne avrebbe leso il diritto di difesa – assistito dall’avvocato Roberto Mangano. Queste le condanne ridotte: Carmelo Sacco (6 anni e 4 mesi), Antonino Sacco (8 anni), Gioacchino e Giampaolo Corso (2 anni e 6 mesi in continuazione con delle precedenti condanne), Francesco Francofonti (1 anno e 4 mesi), Pietro Corso (4 anni). Confermate le pene a Luigi Corso (5 anni), Francesco Lombardo (6 anni e 4 mesi), Giovanni Molinaro (2 anni e 4 mesi), Giovanni Sacco (1 anno e 4 mesi), Paolo Suleman (6 anni e 4 mesi).

Messo di fronte all’evidenza delle intercettazioni, dunque, il costruttore ammise agli agenti della Squadra mobile di avere pagato per anni la protezione dei boss. Migliaia di euro in contanti, l’obbligo di fare lavorare le imprese segnalate dalla cosca e persino il sopruso di “regalare” un appartamento al capomafia. L’inchiesta aveva coinvolto pure Giuseppe Calascibetta, assassinato nel settembre del 2011. Era uscito di galera nel 2009 e subito era tornato ad imporre il racket. Non solo soldi – 50 mila euro -, aveva pure ottenuto un appartamento del valore di 150 mila euro in vicolo Muzio.

L’imprenditore taglieggiato si sfogava con familiari e collaboratori. Raccontava delle “… minacce ai dipendenti ricevute perché noi non abbiamo pagato e quindi abbiamo dovuto pagare obbligatoriamente… dico … è una cosa normale che noi dobbiamo arrivare a tutto questo?”. Ed ancora: “… lei sa meglio di me che ci sono andati fino al cantiere… lo hanno fatto spaventare … gli operai … gli operai non volevano venire più a lavorare … cioè abbiamo… con le pistole in mano…questi grandi signori… ci hanno imposto che devono fare gli impianti”. Poi, la scelta, seppure sofferta, di denunciare affidandosi alle associazioni antiracket Libero Futuro e Addiopizzo.

 


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