Faida tra i Laudani e i Santapaola |E il pentito rinnegato dalla madre - Live Sicilia

Faida tra i Laudani e i Santapaola |E il pentito rinnegato dalla madre

Una polveriera pronta ad esplodere per il controllo del potere. Clan armati fino ai denti e decisi a uccidere: commercianti vessati con l'imposizione del racket. Uno scenario di sangue e lotte intestine portate allo scoperto dall'operazione "En Plein" con, sullo sfondo, la scelta di Franco Musumarra di collaborare con gli inquirenti.

PATERNO’. Di colpo è stato come tornare agli anni ottanta. Agli anni pesanti. Quelli dove le pistole non la smettevano di fumare ed il controllo delle strade e del territorio da parte della malavita organizzata era divenuta per i boss locali l’unica cosa per la quale vivere. Oppure morire. E dall’omicidio di Salvatore Leanza a ieri, sono stati dieci mesi vissuti inconsapevolmente sulla patina sottile di una faida pronta a scatenarsi con una crudeltà riconducibile, per l’appunto, a trent’anni fa. Sarebbe stato l’inferno in terra. L’operazione En Plein, scattata all’alba di ieri con l’ausilio di 150 militari e che ha portato all’arresto di 16 persone ritenute affiliate ai clan Santapaola e Laudani, ha probabilmente fermato un piano di terrore messo in piedi dai due clan rivali della scena paternese: gli Alleruzzo-Assinnata (quello al quale apparteneva Leanza) da una parte; i Morabito-Rapisarda dall’altra. All’omicidio di Turi “Padedda” Leanza era seguito l’agguato (fallito) al suo uomo di fiducia: Antonino Giamblanco scampato ad una raffica di proiettili sulle strade di contrada Tiritì a Motta Sant’Anastasia appena due settimane dopo l’assassinio del suo diretto referente.


UN RUOLO CHIAVE. E’ quello avuto negli sviluppi dell’inchiesta dal 46enne Franco Musumarra. A distanza di una manciata di settimane dai due fatti di sangue della scorsa estate, comincia a collaborare con gli inquirenti. E’ la svolta inattesa che finisce col segnare un’accelerazione nelle indagini e nella ricostruzione dei tasselli mancanti alla ricomposizione di una gerarchia mafiosa alla costante ricerca del suo generale. Musumarra si autoaccusa di entrambi gli episodi mentre sua madre si rifiuta di essere inclusa nel programma di auto-protezione di giustizia e rinnega pubblicamente l’operato del figlio. Musumarra, nel 2010 era rimasto coinvolto nell’operazione Baraonda.

IL PROFILO DEL PENTITO. Francesco Musumarra, detto Cioccolata, era un “patrozzo” del clan Murabito-Rapisarda. Dall’inchiesta della Dda del 2010 emerge proprio il ruolo di vertice e anche di coordinamento del nuovo collaboratore di giustizia “nell’ambasciata dei Mussi” a Paternò. La famiglia capeggiata da Vincenzo Murabito, alias Enzo Lima, e Salvatore Rapisarda, era strettamente legata infatti al clan dei Laudani. Dall’inchiesta Baraonda si può ben delineare il profilo di Musumarra: già dal 2004 ricopriva incarichi di “boss” nella gestione delle estorsioni, nella direzione del traffico e dello spaccio di cocaina oltre che di coordinamento per i rapporti con gli altri gruppi malavitosi. Un personaggio di peso, dunque, della famiglia che pur essendo legata ai Laudani conservava una certa autonomia operativa e finanziaria. Il suo peso criminale gli permette di conoscere dinamiche, equilibri, strutture organizzative e nomi di un assetto criminale che fin dal 1980 affonda le sue radici di soprusi criminali e di attività illecite all’ombra del castello Normanno. Le sue rivelazioni potrebbero aprire importanti filoni investigativi utili a decapitare la cupola del crimine paternese. Intanto ieri hanno permesso di cristallizzare un’indagine già profondamente radicata dai tradizionali metodi investigativi fatti di intercettazioni, analisi e osservazioni, e di assicurare 16 persone alla giustizia.

IL PIZZO: UNO SCENARIO DI SOTTOMISSIONE. Le famiglie Alleruzzo-Assinnata e Rapisarda-Morabito avevano ramificato i propri tentacoli all’indirizzo delle diverse attività commerciali paternesi. Un sistema ben collaudato e che era divenuto ormai una prassi. Ma il racket delle estorsioni non si sarebbe limitato soltanto alla richiesta di denaro: in alternativa, infatti, sarebbe stato imposto anche sottoforma di assunzioni lavorative per i componenti stessi delle famiglie. O, ancora, intimando alcuni commercianti a rifornirsi di materiale solo e soltanto da determinati rivenditori “amici”.

LE ARMI. I clan in campo erano armati fino ai denti. Fucili, revolver, mitragliatrici: nella maggior parte dei casi con matricole abrase. Un arsenale che i carabinieri nel corso degli ultimi mesi avevano pian piano ridotto attraverso una serie di interventi mirati. Incursioni nei garage, in depositi e persino in un ovile: armi che in qualche occasione sono state rinvenute con il colpo già in canna. Segnale ulteriore di un clima di tensione e fibrillazione pronto a esplodere da un momento all’altro.

I RETROSCENA DELL’INCHIESTA – FOTO – NOMI – LE INTERCETTAZIONI 


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