La stagione del tramonto - Live Sicilia

La stagione del tramonto

Questo è il tempo dei ricordi non ancora sopiti, dei rimpianti che si ripropongono e dei rimorsi che mordono. Questa è la stagione in cui il nostro cammino comincia a farsi affannoso, in un presente che ci tiene lontano dal passato e ci fa temere per il futuro.

Ho suonato il campanello due volte. Una piccola monaca ricurva e sorridente viene ad aprirmi al cancello d’ingresso della casa di riposo. “Lei è qui per visitare la signora che è morta stamattina, vero ?”. “Sì, sorella. Era mia zia, la mia madrina di battesimo”. Il cancello si richiude alle mie spalle con un cigolio. La casa di riposo è linda e ordinata come sono solo quelle gestite da monache. Salgo quelle rampe di scale che mi porteranno da lei mentre ad ogni gradino il mio cuore si gonfia di un ricordo, di un rimpianto e del rimorso di non esser riuscito a trovare, prima che fosse tardi, un’ora per portarle un sorriso e una scatola di cioccolatini.

La mia madrina è lì, dentro la bara. E’ un po’ smagrita, ma la sua pelle è bianca e distesa come se il tempo passato su di lei non fosse stato capace di scolpirne il volto di rughe. La guardo finalmente serena ricordando l’ultima volta che le parlai per telefono alla vigilia di Natale.”Pronto, zia. Come stai ?”. La sua risposta sembrò tacitare i miei rimorsi: “Ma chi parla ? Chi sei?”. “Sono tuo figlioccio. Il figlio di tuo fratello”. “Ah, e allora perché non dici a tuo padre di venirmi a trovare ?”. E invece a trovare il fratello c’è andata lei. In un posto dove i vecchi non cadono a terra e le ginocchia non fanno male. E dove non servono badanti e case di riposo.

Abbraccio le mie cugine. Facciamo due passi insieme in corridoio, mentre la stanza della zia si riempie di amici e parenti lontani che fatico a riconoscere. Mi sciolgo nella tenera tristezza della casa di riposo da cui lei non voleva più uscire. Nel grande stanzone centrale, un gruppo di vecchiette sedute intorno allo schermo gigante segue l’ennesima Messa della giornata; altre giocano una partita a carte dalle regole approssimative. Entriamo insieme nella cappella. Quante preghiere hanno ascoltato queste mura, quante parole non dette. E quante lacrime domenicali hanno preferito non rigare quei volti, ricacciate indietro nel profondo dell’anima per esorcizzare il ricordo di un passato che non tornerà più. Il tempo in cui quelle mamme erano giovani ed eravamo noi quelli da tenere per mano affinché non cadessimo. Usciamo dalla cappella. Il refettorio è ancora chiuso, anche se qui si cena prestissimo. Una signora con un paio di orecchini d’oro antico avanza nel corridoio spingendo a fatica un girello; le dita scarne e deviate dall’artrosi sembrano artigli serrati sui manici. Gettando un occhio nella stanza occupata dalla bara ancora aperta, si rivolge a mia cugina: “Speriamo che sua madre si riprenda”. Un barlume di tenerezza addolcisce il suo sguardo dolente e sereno.

Un ultimo saluto alla mia madrina distesa. Cerco di imprimere nella mia mente un volto che mai più rivedrò, anche se vorrei serbare il ricordo di quello, affettuoso e sorridente, che mi era più familiare. Un ultimo abbraccio. Scendo le scale che mi portano nell’androne sotto lo sguardo di una statuetta della Madonna di Lourdes il cui collo gronda di coroncine. La suora portinaia mi sorride ancora accompagnando con la mano il cancello cigolante che si chiude di nuovo alle mie spalle. Avanzo nella strada che mi separa dall’automobile parcheggiata laggiù in fondo mentre la luce del tramonto di una primavera finalmente sbocciata si sforza invano di lenire la mia tristezza.

E rifletto su questa nostra stagione della maturità in cui non siamo più giovani e non siamo ancora vecchi; su questa “terra di mezzo” in cui ci sentiamo spesso schiacciati dal peso delle nostre responsabilità. Quelle verso i nostri vecchi che affidiamo a badanti e case di riposo non potendo dedicare alle loro esigenze crescenti che una parte del nostro tempo. Quelle verso i nostri figli, germogli di una terra splendente e disperata che, come il suo dialetto, sembra aver perso il concetto stesso di tempo futuro. E’ come poco fa su quelle scale: questo è il tempo dei ricordi non ancora sopiti, dei rimpianti che si ripropongono e dei rimorsi che mordono. Questa è la stagione in cui il nostro cammino comincia a farsi affannoso, in un presente che ci tiene lontano dal passato e ci fa temere per il futuro. E’ proprio l’ora che volge al tramonto nei pressi di una casa di riposo.

 

 


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