Alla fine della Fiera - Live Sicilia

Alla fine della Fiera

Tutti i personaggi di un'epoca che non tornerà comunque più. Viaggio nella galleria palermitana di un mito inaffondabile.

Ci andavamo tutti insieme di pomeriggio, il più delle volte nei week-end. L’appuntamento era davanti all’ingresso alla fine di via Imperatore Federico. Noi ragazzi posteggiavamo i Vespini sul piazzale davanti alle cancellate, mentre le ragazze scendevano dalle macchine di qualche genitore caritatevole con cui iniziava il negoziato sull’orario del ritorno. “Facciamo alle dieci e non se ne parli più. Non un minuto più tardi”. Guardato dagli altri con occhi di invidia, qualcuno tirava fuori la busta con i due biglietti-omaggio, status-symbol che allora come adesso identifica lo ‘ntiso, la persona di rispetto dotata delle conoscenze “giuste”. Lo ‘ntiso offriva, manco a dirlo, il secondo biglietto alla più carina delle ragazze con cui iniziava il secondo negoziato del pomeriggio. Perché quella, che naturalmente aveva da tempo messo gli occhi su un altro, non voleva fornire allo ‘ntiso indebite scorciatoie nella lunga e perigliosa via della conquista. E così, due della comitiva passavano tronfi il cancello d’ingresso e si sedevano con l’aria annoiata su una panchina posta al di là del confine mentre tutti gli altri, noi poveri peones, facevamo la fila per acquistare il biglietto.

L’aria era tiepida e dolce sotto Monte Pellegrino in quei pomeriggi di tarda primavera, quando le lunghe vacanze erano ormai prossime e gli ormoni in subbuglio. Le “magliette fine” delle ragazze lasciavano trasparire acerbe rotondità troppo a lungo celate dagli indumenti invernali, mentre noi ragazzi potevamo sfoggiare la Lacoste nuova o l’ultimo paio di jeans Bell Bottom acquistati per l’occasione da Bla Bla in Via Enrico Parisi. C’erano gli intellettuali del gruppo che proponevano la visita sistematica di tutti i padiglioni dell’esposizione, inclusi quelli di cui non fregava niente neppure a loro. Poi c’erano i frickettoni, gli alternativi che giravano i padiglioni dei paesi esotici dove improvvisati venditori quasi sempre palermitani offrivano oggettini etnici che oggi si possono trovare presso le bancarelle sparse ovunque in città. Infine, gli allafannati un po’ tardivi che non si vergognavano di mostrare a tutti gli altri l’unico motivo per cui erano venuti alla Fiera quel pomeriggio: mangiare. La prima tappa era l’affollatissimo chioschetto sul viale principale dove preparavano le crepes al Grand Marnier, poi quello dell’Algida dove vendevano il Cornetto Olimpia con il gelato di fragola e infine, sul far della sera, la visita al villaggio gastronomico con l’odore dei wurstel arrostiti che ammorbava i raviolini con la salsa di pomodoro ridotti a informe mappazza dentro le loro scodelle di cartoncino. Al termine del viale, e della visita alla Fiera, il Luna Park con l’autoscontro, il luogo dove interessi e strategie di conquista si delineavano chiaramente tra metaforici inseguimenti e collisioni dei bordi gommati di quelle macchinine con l’asta dietro lo schienale che guidavamo con la sensazione di essere ormai, e finalmente, diventati grandi.

La Fiera del Mediterraneo finalmente riapre i battenti dopo tanti anni di abbandono e di degrado. Al di là della nostalgia per un’età e per una Palermo che non ci sono più, mi sono sempre chiesto in quale altra città europea un sito espositivo così grande in un luogo così bello sarebbe stato lasciato così a lungo inutilizzato e alla mercé dei vandali. Basti pensare che a Palermo, città dotata di caratteristiche climatiche e storico-paesaggistiche uniche, è impossibile organizzare un grande convegno di rilevanza internazionale per la mancanza di un Centro Congressi degno di questo nome. La riapertura di questo spazio alla pubblica fruizione va salutata con gioia come prova che il problema del suo utilizzo è nell’agenda delle Autorità, anche se forse è il caso di evitare trionfalismi valutando seriamente ipotesi alternative di impiego. Una grande fiera moderna ha bisogno di infrastrutture di supporto (parcheggi, depositi, vie di comunicazione) che non appaiono alla portata dell’attuale sede e della drammatica congiuntura economica. A meno che non si consideri al rango di esposizione internazionale quella specie di grande bazar che la Fiera in fondo era anche ai “tempi belli” e che pare destinata a tornare, per di più su un numero ridotto di padiglioni. I tempi sono cambiati. E non soltanto perché la stagione dei miei quindici anni, ahimé, è passata da un pezzo.

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