Piero Grasso, il mandarino di Sicilia - Live Sicilia

Piero Grasso, il mandarino di Sicilia

Da Il Foglio di oggi. Ritratto senza benevolenze del presidente del Senato. Pescato due anni fa da Pierluigi Bersani nel grande mazzo dell'ovvietà.

Dal Fogliio
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Gli uomini si dividono in due categorie. Ci sono quelli che vedono la mela cadere e come Isaac Newton s’interrogano sul perché la mela cada; e poi ci sono quelli che passando sotto l’albero, vedono la mela cadere e semplicemente l’afferrano e la mangiano. I primi scoprono le meccaniche celesti, i secondi fanno dell’occasione nutrimento, senza troppi pensieri. Pietro Grasso appartiene alla seconda categoria. Egli si trovò qualche anno fa a passare sotto l’albero dei partitanti, gli cadde la mela del Senato in mano e divenne presidente senza interrogarsi troppo sulla grande fortuna da lui ricevuta. Così, come un pacco a sorpresa, un jolly extra-sorridente che esce a molla dalla scatola magica, Grasso si assise sullo scranno della seconda carica dello Stato e cominciò a incarnare “l’istituzione”, perbacco.

Chi è Grasso? Facciamo affiorare dalle sue labbra la biografia: “Sono nato a Licata, in provincia di Agrigento, e cresciuto a Palermo, città che con la sua storia e il suo patrimonio di bellezza e insieme di violenza, ha influenzato le scelte più importanti della mia vita, sia sul piano familiare che su quello professionale”. Manca l’anno di nascita, 1945, in questo incipit da isolano che prelude a tutto e il contrario di tutto. E poi? E’ l’avventura di un caballero todo toga e codex, nella magistratura, un classico dei classici della narrativa contemporanea italiana, uno sceneggiatone fatto di “maxiprocessi”, sentenze “di settemila pagine”, il primato (autoassegnato) della “sentenza” che “stabilisce in modo inequivocabile l’esistenza della mafia, che molti ancora negavano, e la sua vulnerabilità”, il “lavoro con Giovanni Falcone” e poi “l’arresto di 13 dei 30 latitanti più pericolosi”, e come non ricordare “la cattura di Bernardo Provenzano a Corleone l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza”. E’ una carriera lunga di magistrato che “comincia nel 1969 a Barrafranca, in provincia di Enna” che poi, improvvisamente, nel 2013 s’interrompe. Poteva restare in magistratura, precisa, ma nell’anima del Grasso echeggiavano gli squilli di tromba della “chiamata” e dunque “ho però deciso di dare le dimissioni dall’ordine giudiziario, nel quale non potrò più tornare, di “spostarmi” in politica e di impegnarmi con il Partito Democratico per portare la mia esperienza in Parlamento, certo di poter dare il mio contributo al rilancio di temi importanti come la situazione delle carceri, la lotta alla criminalità organizzata, la difesa della legalità, la sicurezza dei cittadini e la riforma della Giustizia”. Doveva occuparsi di questo, giustizia, programma già ambizioso, ma la mela è caduta proprio mentre lui passava e Pietro che partì da Enna è finito oggi alla presidenza del Senato, là dove tutto diventa un’aspirazione a prendere il posto di qualcun altro.

Un’onorata carriera nella magistratura e poi la metamorfosi necessaria, il combinato disposto della carica e delle ambizioni, l’incorporato desiderio che da Palazzo Madama eternamente proietta Altrove, più in alto. Grasso ha cominciato ad assaporare il gusto dolce del potere incipriato riservato ai presidenti del Senato, il miele della riverenza dovuta alle Alte Cariche e dopo appena due anni siamo già alla classica sbornia da zucchero istituzionale dalla quale è davvero difficile riprendersi.

Le sue visioni politiche erano apparse a sprazzi qua e là nei suoi libri, dove la mutazione si avverte nei titoli, nel cambio di stile, di format, nell’apparizione della retorica come funzione essenziale – e ormai unica – del racconto. I titoli dicono tutto della sua trasformazione da magistrato a oracolo. Nel 2001 Mondadori pubblica “La mafia invisibile – La nuova strategia di Cosa nostra”, è un’intervista con Saverio Lodato e si sta ai fatti, nove anni dopo Grasso cambia partner, entra Alberto La Volpe, e la titolazione è già da (para)guru in “Per non morire di mafia” dato alle stampe da Sperling & Kupfer, nel 2011 la penna è di Enrico Bellavia e la prosa si tramuta in un pugno con Dalai che manda in libreria “Soldi sporchi – Come le mafie riciclano miliardi e inquinano l’economia mondiale” e, infine, nel 2012, anno di preparazione della candidatura, Grasso si mette in proprio, balla da solo, e torna da Sperling & Kupfer per far emergere l’afflato, il do di petto della star dell’antimafia che va ascoltato in rigoroso silenzio: “Liberi tutti – Lettera ad un ragazzo che non vuole morire di mafia”. L’incipit tradisce le aspirazioni pedagogiche, il ruolo futuro colto per caso: “Mi chiamo Pietro Grasso e ho combattuto la mafia per quarant’anni”. E’ il nuovo inizio, un’altra storia, un’altra carriera, un’altra dimensione.

Quando Pierluigi Bersani si ritrova nei guai dopo le elezioni politiche del 2013, comincia a giocare al Bingo di Grillo nella vana speranza di edificare un governo con appoggio pentastellato. La manovra ha bisogno di “società civile”, impegno per il prossimo (che diventa: non questo, il prossimo), ettolitri di retorica ad alta gradazione, giustizialismo a senso unico di marcia, buonismo veltroniano corretto al Torquemada, il savianesimo come politica dell’irrealtà, il banale elevato a scuola teologica di Tubinga. Che fare? Non essendo Lenin, Bersani pesca dal mazzo dell’ovvio: Laura Boldrini alla Camera e Pietro Grasso al Senato, Nostra Signora degli Ultimi in Carrozza e Sua Eccellenza il Procuratore Antimafia. Perfetto. Epilogo: Pierluigi entra in una stanza con Grillo e si fa infinocchiare in streaming, esce dalla faccenda come Jo Frazier contro Alì e perde la segreteria del partito, mentre la Boldrini e Grasso s’incamminano verso le presidenze, luminoso sentiero del Giusto a prescindere.

Grasso interviene in Senato per la prima volta il 16 marzo del 2013, giorno della sua elevazione alla Presidenza, alla quarta votazione. La “rupture” di Matteo Renzi è nella stratosfera, fioccano le citazioni di Moro e Papa Francesco, appare qua e là lo specchietto per le allodole grilline: “Siamo davanti a un passaggio storico straordinario: abbiamo il dovere di esserne consapevoli, il diritto e la responsabilità di indicare un cambiamento possibile, perché è in gioco la qualità della democrazia che stiamo vivendo. Allo stesso tempo dobbiamo avviare un cammino a lungo termine, dobbiamo davvero iniziare una nuova fase costituente che sappia stupire e stupirci”. Il cammino, cribbio, come non essere d’accordo. In una sola seduta, c’è già tutto il “pietrograssismo” dispiegato in forze: “Penso a questa politica, alla quale mi sono appena avvicinato, che ha bisogno di essere cambiata e ripensata dal profondo nei suoi costi, nelle sue regole, nei suoi riti, nelle sue consuetudini, nella sua immagine, rispondendo ai segnali che i cittadini ci hanno mandato, ci mandano e ci continuano a mandare in ogni occasione. Sogno che quest’Aula diventi una casa di vetro e che questa scelta possa contagiare tutte quante le altre istituzioni”. Due anni dopo, la rilettura di certi discorsi diventa una rivelazione politica, si vede quello che sta sopra e sotto, quasi sempre coincide con il niente. Ma in Grasso quella materia impalpabile che è la retorica diventa l’avamposto nel Far West, il castello fortificato per essere “pronto a tutto”, la certezza che non ci saranno mai righe fuori posto, un copione preciso di colui che è naturalmente “pronto” a un’altra chiamata. Egli in quella giornata inaugurale è già “riserva della Repubblica”, prima ancora di aver giocato un paio di campionati. L’importante è essere nella rosa dei convocati, parlare, dire, fare, sorridere gioviale di fronte alle telecamere, sopraccigliare, far roteare l’indice, ammonire incontrare, brindare, inaugurare. Nel 2013 Grasso infila in agenda 74 discorsi, nel 2014 diventano 168, nell’anno in corso siamo a quota 48 e abbiamo davanti cinque mesi che s’annunciano incandescenti, ricchi di occasioni. Grasso c’è, è in corsa. Verso dove? Non importa, qualcosa accadrà. E’ la mela che casca dall’albero. Lui non s’interroga sulla gravità. Deve solo coglierla.

Non c’è campo dello scibile dove il Presidente non possa indicare Nadir e Zenit: commemorazioni di stragi; cerimonie del ventaglio; convegni antimafia; disquisizioni sul settore dell’automobile; povertà e disagio giovanile; riforme per la crescita; il parco archeologico di Luni; l’Atto di Helsenki; l’infanzia e l’adolescenza; strategia di sicurezza; il bilancio Enac; ricordare Matteotti; dalle aule parlamentari a quelle scolastiche; Europa, Shoa e stragi nel Mediterraneo; diritti omosessuali; Moro, l’Europa e il Mediterraneo; il 750° anniversario della nascita di Dante; l’anniversario di Amnesty International… che fatica! Dove c’è un evento, c’è lui. Direte che ci sono anche i doveri della rappresentanza istituzionale, accipicchia, chi lo nega? Il problema è che la tentazione della vetrina social è programma politico sempre più marcato, smaccato, una traccia che nell’arruffamento dell’agenda, nel day by day non si vede ma poi, a bocce ferme, zampilla come il vino da una botte con il rubinetto aperto. La macchina di Grasso lavora a pieno ritmo, non perde un colpo, un tintinnio di calici, un appuntamento pensante, un seminario pesante. Il suo consigliere per gli affari internazionali, Rosario Aitala, spunta l’agenda con gli eventi diplomatici, i viaggi all’estero, le strette di mano che diventano la photo opportunity di rango planetario, messaggio in pixel del Destinato ad Altro; il portavoce Alessio Pasquini puntualizza, emette, spicca, dà la voce (e il sottovoce) alla politica carsica del presidente del Senato; il capo della sua segreteria, Gabriella Persi, prende nota di tutto, smista il traffico, consiglia, esegue e prosegue il lavorìo incessante, il dietro le quinte che prepara all’avvenire, al domani, al (suo) progresso.

Quando Napolitano decise di far partire i titoli di coda del suo secondo mandato presidenziale, Grasso fu supplente e aspirante nello stesso tempo. Quando il 14 gennaio scorso arrivò in aula l’annuncio delle dimissioni di Re Giorgio, egli con tono grave, come si conviene a chi deve caricarsi tutto il peso della Nazione, disse ai senatori: “Lascio l’Aula perché il segretario generale del Quirinale mi deve dare comunicazioni”. Napolitano out, dentro lui, come recita la Costituzione, in attesa di un nuovo capo dello Stato. Su twitter, la gioia di Grasso è composta, in attesa degli eventi: “Una grande responsabilità e una forte emozione. Affronterò questi giorni con spirito di servizio e animo sereno”. A Palazzo Giustiniani arrivano due corazzieri all’ingresso, sul balcone sventola lo stendardo della presidenza della Repubblica, comincia la fase “Piccolo Quirinale”. Il nome di Grasso comincia a rimbalzare sui giornali, la supplenza potrebbe diventare elezione, palla in buca e via più veloce della luce in vetta al Colle. L’illusione è alimentata dai giornali, in fondo può essere il candidato che mette d’accordo destra e sinistra del Pd e poi apre nuovi scenari istituzionali. L’accordo con Berlusconi c’è e non c’è, tira aria di burrasca tra Silvio e Matteo, si accarezza il vecchio meraviglioso sogno del regime change con i cittadini pentastellati e i democratici in progress. E Grasso c’è. L’illusione dura poco, Matteo Renzi ha un colpo dei suoi, apre la bisca clandestina e piazza la Stangata che frega Berlusconi e mette fine al (primo) patto del Nazareno: dal cilindro di Matteo viene fuori, ironia della sorte, una vecchia conoscenza: Sergio Mattarella. Fu Grasso a Palermo a condurre le indagini sull’omicidio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, fratello di Sergio.

Superato all’ultima curva da un altro siciliano. Cose tra isolani che vengono celebrate con un sorriso, ma rendono meno dolce il marsala a fine pasto. L’epilogo in realtà è solo un volta pagina per il domani, l’oggi che s’apre come un sipario davanti a noi. Il presidente della Repubblica e quello del Senato sono in sintonia, tra i due (e la Boldrini) c’è un triangolo istituzionale nel quale il premier Renzi gioca libero, ma i lati sono come una fisarmonica, al primo accenno di crisi del governo, cominciano a stringersi. E Grasso è ancora là, felpato, sorridente, pronto a dare una ragione a tutti, conciliante, pronto all’incursione nel disaccordo. Dove gli ingranaggi s’inceppano, dove c’è attrito, serve il Grasso. Qualche giorno fa è atterrato come un falco alla festa dell’Unità di Milano e, dando prova di saper contare, ha messo su un siparietto da allarme rosso: “L’invito a trovare una soluzione politica per superare quello che potrebbe essere un’impasse rispetto ai numeri che ci sono al Senato. Finora la maggioranza al Senato non ha dato problemi. C’è e sono convinto che ci sarà. Ma questa maggioranza poterebbe non esserci se ognuno mantiene le sue posizioni”. Debora Serracchiani lo guardava incredula, Alice nel Paese delle Meraviglie, senza capire dove andrà a finire il bengala fluorescente lanciato da Grasso. Dove? Il cosmo può attendere, atterrerà sotto l’albero di mele di Palazzo Chigi. Bisogna star là e attendere. Un refolo di vento, una crisi, una brezza. Basta poco, dicono. Prima o poi, il dolce frutto a terra cadrà. E Grasso ancora una volta la mela raccoglierà.


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