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Se la tecnologia fa battere il cuore

Un team di scienziati dell’Università di Berkeley ha creato una porzione di cuore umano funzionante su chip.

Un team di scienziati dell’Università di Berkeley ha creato una porzione di cuore umano funzionante su chip, realizzando una rete di cellule muscolari pulsanti che riproduce il tessuto cardiaco su un minuscolo dispositivo di silicone. Il sistema è ‘dinamico’, nel senso che si replica proprio come il tessuto del nostro corpo quando viene esposto a sostanze nutrienti e a farmaci. Creando una struttura 3-D, i ricercatori hanno simulato la geometria delle fibre del tessuto connettivo del cuore, imitando lo scambio per la diffusione di sostanze. Dopo ventiquattr’ore dall’ingresso nel chip, le cellule del cuore hanno iniziato a battere da sole, col normale ritmo fisiologico di 55-80 battiti al minuto. Gli scienziati hanno poi monitorato la variazione dei battiti del tessuto cardiaco in base alla somministrazione di vari farmaci cardiovascolari. Il ‘cuore-su-chip’ potrebbe difatti, oltre nelle malattie genetiche, essere utile per lo screening delle reazioni alle medicine.

E, un mese fa, anche l’Università italiana ha reso pubblici i risultati delle ricerche sulla creazione di organi umani in dispositivi tecnologici miniaturizzati, gli ‘organ on chip’, mediante la combinazione delle tecniche di micro-fabbricazione con la medicina rigenerativa. Nel laboratorio BioEra (Biological Engineering Research Application) dell’Università di Padova e dell’Istituto veneto di medicina molecolare (Vimm) è stato scoperto come sviluppare tessuti umani miniaturizzati, in particolare del fegato e del cuore. L’idea alla base della tecnologia innovativa è la possibilità di produrre organi umani da utilizzare come strumento di screening, al fine di testare nuovi farmaci e quindi di trovare nuove terapie. La miniaturizzazione permetterà l’analisi di un gran numero di combinazioni sperimentali a costi estremamente contenuti; inoltre, la complessità tecnologica offerta da un dispositivo miniaturizzato consentirà di operare in condizioni che possano mimare la fisiologia umana, sia in situazioni di normalità che in presenza di alterazioni patologiche. Sarà possibile sviluppare cure mirate per il singolo paziente utilizzando cellule staminali che ne contengano le informazioni genetiche.

Insomma, veri e propri ‘pezzi di cuore’ permetteranno di lenire le sofferenze del corpo. E, per quelle dell’anima, ci stiamo attrezzando.

Da tempo immemoriale, nel cuore si fa risiedere il sentimento più intenso e coinvolgente dell’essere umano, l’amore: quello che dà le felicità più grandi e le tristezze più profonde. Sul piano scientifico, si è accertato invece che i traumi dell’innamoramento hanno piuttosto a che fare col cervello.

L’antropologa Helen Fisher ha studiato per anni ‘the brain in love’, ovvero il ‘cervello in amore’; nel corso delle sue ricerche, ha sottoposto alla scansione di un tomografo computerizzato persone appassionatamente innamorate le quali, stando nello scanner, dovevano osservare due foto: un ritratto della persona amata e uno di un individuo della stessa età e sesso, che non suscitasse particolari sentimenti. In base a quanto descritto dalla Fisher, l’esperimento durava dodici minuti. La persona innamorata stava nella macchina; al di sopra dei suoi occhi era collocato uno specchio verso il quale era rivolta la telecamera. I soggetti guardavano per trenta secondi l’immagine della persona amata, poi contavano trenta secondi alla rovescia, quindi fissavano per altri trenta secondi un’immagine neutrale. Sovrapposte le scansioni cerebrali dell’immagine positiva a quelle dell’immagine neutrale, e filtrata l’immagine risultante, si otteneva il ‘cervello innamorato’. La scienziata ha dimostrato che l’innamoramento non è un’emozione, ma una pulsione, sorta milioni di anni fa: in effetti, è uno dei sistemi cerebrali più forti tra quelli sviluppati dall’ ‘animale uomo’. Ecco perché la pena d’amore è come una dipendenza, il cui centro è collegato con il sistema dopaminico.

Ne discende dunque che il mal d’amore si possa curare con le medicine. Sembra che la scienza possa offrire consolazione (chimica) ai cuori infranti, e che i ricercatori siano al lavoro per creare speciali medicine ‘anti-amorose’. Studi recenti sul cervello hanno mostrato diversi parallelismi tra gli effetti di alcune droghe che danno dipendenza e l’esperienza dell’essere innamorati: sia i primi che la seconda attivano il sistema cerebrale del rinforzo, sopraffacendoci e, soprattutto, rendendoci dimentichi di tutto il resto, di tutto quel che non è il bisogno primario d’una sostanza stupefacente o d’un amore che ci ha stupefatti. In termini neurochimici, amore e droga possono essere considerati equivalenti. Considerando quindi la malattia d’amore al pari della dipendenza, o della sindrome depressiva, che lo si curi con la medicina!

L’equazione parrebbe normale: soffrire per amore – prendere la medicina – stordire il sentimento nella fase acuta – guarire dalla dipendenza.

E il ‘fattore umano’? E la crescita individuale? E quello speciale percorso che ci rende unici, col bagaglio di gioie, dolori e conseguenti reazioni che connotano l’individuo? E, per citare Riccardo Cocciante, tutto il repertorio di ‘quando finisce un amore, senza una ragione né un motivo, senza niente’? Cosa vogliamo farne del vuoto nella testa, del buco nello stomaco? Eroi della nostra personale epopea, tra un momento di disperazione e un torrente di lacrime, chiamavamo gli amici, rileggevamo una lettera, facevamo un’incursione nel freezer, sognavamo il morettiano megabarattolo di Nutella nel quale affogare, ci chiudevamo in casa senza rispondere al telefono (l’oggetto del nostro desiderio non avrebbe comunque chiamato) col solo risultato di far preoccupare la mamma. Stracciavamo fotografie (quelle vere, quelle di carta lucida dal fondo un po’ sbiadito) maledicendo il destino ingiusto e baro.  Altro che antidepressivi: le fasi della sofferenza amorosa, le abbiamo vissute una per una, ora dopo ora, per diventare quello che siamo.

Se tecnologia e scienza risolveranno proprio tutto, che farne del bagaglio del passato? Di quello universale, costituito da millenni di letteratura e d’arte che hanno descritto l’amore e lo struggimento dell’amare troppo, dall’ ‘Odi et amo’ catulliano al ‘Compleanno’ di Chagall? E cosa di quello privato, personalissimo, che ha visto noi stessi protagonisti di sofferte vicende d’amore deluso, tradito, non ricambiato o troppo presto scomparso? Cosa ne sarà del principe dei sentimenti?

Su piano scientifico, la stessa Fisher dichiara che anche fra un milione di anni l’amore continuerà a essere lo stesso di oggi, almeno per quel che riguarda il cervello, nell’identico modo nel quale avremo ancora fame e sete. Dopotutto, siamo degli animali, perlomeno in certe regioni del cervello. Per fortuna, viene da commentare.

Sul piano umano, passando dai pezzi di cuore al cuore in pezzi, potremo ricorrere a un farmaco antidepressivo, o, in casi estremi, a un trapianto; o nello strenuo convincimento che vivere la sofferenza sia, tout court, vivere, permetteremo ai ricordi di farci compagnia.

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