Ascolto e colloquio, i pilastri |del rapporto medico-malato - Live Sicilia

Ascolto e colloquio, i pilastri |del rapporto medico-malato

Purtroppo, spesso, esistono sbarre e steccati nel rapporto tra dottore e soggetto infermo, per incapacità di relazione.

E’ fondamentale nell’arte medica l’approccio al dolore. Purtroppo, spesso, esistono sbarre e steccati nel rapporto tra dottore e soggetto infermo, per incapacità di relazione. E’ necessario contrastare e alleviare la sofferenza del malato.

Il medico che ha di fronte un malato da curare, si trova nello stesso tempo di fronte alla domanda sul senso della vita sua e di quella altrui. Pertanto in presenza di uomo sofferente i medici sono chiamati a un’attività complessa e profonda, che è più di una mera prestazione professionale e che nessun manuale di medicina sarà in grado di insegnare. Altrimenti da “sacerdozio professionale” la medicina diviene lavoro burocratico.

Il malato è un solitario, poiché è oltremodo difficile immedesimarsi compiutamente nei suoi bisogni e nel suo destino. Per il medico il dolore è il lievito necessario per l’etica. Con riferimento anche all’etica grigia del dovere quotidiano, senza palcoscenici o riflettori.

Occorre mettere al centro di ogni atto medico il senso della dignità assoluta della persona umana. La dignità, nel suo significato morale e sociale, è un valore in sé, dovere esistenziale che si esprime attraverso le reazioni intersoggettive.

Ogni essere umano rappresenta un universo comunicativo e la chiave per entrare nella sua comunicazione è quella di sapere ascoltare (anche con lunghi silenzi), comprendere e parlare senza creare squilibri. Pertanto ascolto e colloquio sono i pilastri del rapporto medico–malato. Il diritto al tempo per ascoltare e parlare. Con un sorriso, una carezza, un’avvolgente umanità.

Anche negli anni ‘900 illuminati e grandi clinici ammonivano colleghi e allievi: “E’ molto più importante conoscere chi è quel paziente che ha quella malattia, che non sapere qual è la malattia che ha quel paziente”. Non ci sono malati uguali.

Bisogna sviluppare questa capacità d’immedesimazione che è stata chiamata empatia. Bastano, per esempio, piccoli e delicati accorgimenti. Il medico non deve stare in piedi, bensì seduto vicino al letto del malato: altrimenti non si crea la confidenza necessaria.

Sorpresa, paura, sofferenza, abbandono sono i sentimenti del malato, come descrive con somma maestria Alessandro Manzoni: “… Sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di gambe, una gravezza di respiro, un’arsione interna… stava l’infelice immoto, spalancati gli occhi, ma senza sguardo…”.

Buona medicina che si scontra i dati statistici i quali rilevano che il tempo medio che un dottore dedica al malato è di 18 secondi. Un grave assottigliamento spirituale. Specialmente se la relazione, ahimè!, avviene – come spesso accade – tramite un semplice e fugace dialogo telefonico.

Ogni conoscenza parte da una osservazione. Ma non basta. Si realizzano infatti “trappole della mente”, come in medicina. La tecnologia trionfante ha prodotto un crescente allontanamento tra medico e malato, che produce un grave strabismo diagnostico e terapeutico. Un approccio denominato «medicina narrativa» è positivo strumento per ricucire questa tela strappata.

Al centro del rapporto narrativo non c’è la malattia, né il malato ma la storia di malattia come percepita dal malato. Ascoltare il loro punto di vista. I principali effetti di questo criterio sono: esplorare il bisogno di consultazione medica; comprendere il paziente nella sua totalità; valorizzare l’alleanza terapeutica; promuovere la salute, con molteplici effetti sul piano diagnostico, terapeutico, educativo.

Se intendiamo la medicina narrativa come sviluppo delle competenze nel colloquio dei professionisti sanitari e incentivo all’espressione della soggettività dei pazienti, essa si rivelerà uno strumento prezioso.

Cesare Frugoni – forse il più grande clinico italiano del XX secolo – scrisse che la medicina era colloquio e che cattivo medico sarà quello che si partirà dal letto di un malato senza avere impresso qualche segno sull’anima sua o che non lascia dietro la sua opera una scia di amicizia e riconoscenza. È questo un dovere primario di tutto il personale dell’area sanitaria, per ricostruire l’antico patto logorato.

 

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