Mafia e colletti bianchi, Catania |raccontata dal magistrato Ardita - Live Sicilia

Mafia e colletti bianchi, Catania |raccontata dal magistrato Ardita

Un affresco della Catania degli anni ’80: quella che vide l'affermazione di Nitto Santapaola dentro Cosa Nostra attraverso la guerra di mafia che portò prima alla eliminazione di Pippo Calderone, poi a quella di Alfio Ferlito.

CATANIA – In “Catania Bene” pubblicato da Mondadori Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina ed ex direttore generale del Dap, ha realizzato un affresco della Catania degli anni ’80: quella che vide l’affermazione di Nitto Santapaola dentro Cosa Nostra attraverso la guerra di mafia che portò prima alla eliminazione di Pippo Calderone, poi a quella di Alfio Ferlito. Una ascesa irresistibile segnata dall’alleanza con l’ala vincente e poi stragista di Cosa Nostra palermitana, quella dei Riina e dei Provenzano. E lo realizza con gli occhi di chi, giovane sostituto procuratore, poco più che ventenne all’inizio degli anni ’90, fu al centro di tutte le inchieste di mafia e sui rapporti tra mafia, politica ed economia che svelarono il grande inganno messo in scena negli anni ’80: quello che a Catania la mafia non esistesse.

Il processo di rimozione di Cosa Nostra e della mafia, negli anni ’80, a Catania riguardò la città ufficiale. Quella delle istituzioni, della borghesia imprenditoriale, della magistratura, delle forze dell’ordine e, non da ultimo, del mondo dell’informazione. Sarebbe fare un torto a chi tenne gli occhi aperti generalizzare ma la realtà che descrive minuziosamente il procuratore Ardita nel suo volume è quella di una città ufficiale che, per larga parte, si voltò dall’altro lato, facendo finta di non vedere. O, vedendo, fece finta di nulla.

Questo libro, infatti, parla di Nitto Santapaola in termini che gli valgono la parte di miglior attore non protagonista. Questo libro parla di Catania, della città che lo vide diventare grande e che, soprattutto, lo fece diventare grande. Una Catania che preferì non vedere che dietro a quell’uomo che costruiva mattone dopo mattone il suo impero c’era un sistema duale di costruzione del consenso: imponendolo militarmente e con ferocia e crudeltà dentro il recinto dell’organizzazione e nei confronti degli altri gruppi, e garantendosi il consenso della città bene, appunto. Ammantando il proprio volto con una patina di rispettabilità e presentabilità sconosciute ai suoi alleati palermitani. Santapaola cercava l’affermazione sociale e per i suoi figli, che studiavano nei licei della Catania Bene, immaginava un percorso diverso, di emancipazione dall’ambiente mafioso per farne protagonisti, rispettabili e non compromessi, della élite economica cittadina.

Perchè Nitto Santapaola manteneva un profilo basso – al punto che per molti anni, come scrive Ardita, in città si penserà che il capo di Cosa nostra fosse Francesco “Cavadduzzu” Ferrera”. Mentre a Palermo venivano assassinati Boris Giuliano, il giudice Costa, Piersanti Mattarella, Ninni Cassarà, Beppe Montana, Rocco Chinnici, seguendo un disegno di contrapposizione frontale con lo Stato, a Catania Santapaola imponeva un altro stile. Quello dell’appeasement, cercando non lo scontro ma la rispettabilità. Quella che porterà il prefetto ed il questore dell’epoca ad essere presenti all’inaugurazione della Pamcar, la concessionaria Renault che vendeva le macchine ai catanesi.

“Nel suo campo – scrive Ardita – Benedetto Santapaola era un innovatore; aveva intuito quale fosse il know-how al quale anni dopo si sarebbero allineati tutti i mafiosi dell’isola. Lui con gli uomini delle istituzioni ci parlava e se li faceva amici. «Toghe e divise non si toccano» era il suo motto e così si teneva al riparo da tutto. E se capita un problema non bisogna perdersi d’animo, tanto, come dicono i catanesi, appoi i cosi s’abbessunu, tutto s’aggiusta. Il suo era un modello vincente, da esportare. Aveva capito che uccidere un magistrato, un poliziotto, un uomo dello Stato non serve a niente. Anzi crea solo problemi e desta attenzioni. Impone reazioni politiche e istituzionali e indebolisce Cosa nostra. Massima ferocia dunque nel dominio delle cose criminali, ma niente noie con lo Stato. Lui – l’alleato dei Corleonesi, che avevano compiuto decine di omicidi eccellenti – sul suo territorio non voleva rotture di equilibrio. Viaggiava accompagnato dalle amicizie influenti della borghesia di cui era ormai diventato espressione.

Placare, sedare, tranquillizzare, isolare i nemici istituzionali ed eliminare i concorrenti al suo dominio criminale: questa la formula vincente che ha fatto di Cosa nostra catanese l’organizzazione più longeva e radicata, quella con maggiori disponibilità economiche. Con questo sistema, fondato per anni sullo stesso blocco di potere mafioso, Santapaola ha mantenuto la leadership del mondo criminale e i boss catanesi hanno ripulito il denaro e l’hanno convertito nelle lucrose attività imprenditoriali che sono espressione della vitalità commerciale tipica della città. Attività che solo in parte sono state individuate, e di cui si è registrata la presenza anche all’estero.

Catania Bene è un duro atto d’accusa ai silenzi e alle omissioni che consentirono e alimentarono per un decennio l’incontrastato dominio della famiglia santapaoliana. Un libro in cui il procuratore Ardita svolge una riflessione sul ruolo della informazione nel raccontare le vicende che accadevano, arrivando alla conclusione che questa fossa più interessata a partecipare a quella volontà di sopire, calmare, tranquilizzare, che a raccontare i fatti per come si svolgevano. Il risultato fu quello di isolare di fatto chi quell’intreccio dichiarato epperò inconfessabile tra politica, istituzioni, economia e criminalità, lo aveva messo a fuoco sin dalla fine degli anni ’70 per poi farne il cuore dell’attività giornalistica de I Siciliani. Un uomo, Pippo Fava, il cui destino era inevitabilmente segnato e che si presentò la sera del 5 gennaio 1984.

Da quel momento, scrive Ardita, comincia la campagna di disinformazione sulla morte di Fava:” E così quella notte stessa dell’omicidio tutti all’unisono seguirono lo stesso spartito. I giornali scrissero che poteva trattarsi di una questione personale: che vi erano «motivi passionali» alla base del possibile movente del delitto. E d’altra parte era questo che la gente voleva sentirsi dire, che non ci sono pericoli. Che non può essere stata la mafia. Perché la mafia la lascia in pace la borghesia.

E comunque la mafia a Catania non esiste. Semmai c’è la malavita: «I delinguenti s’ammazzunu ’ntra di iddi… mentre chista questione di fimmini fu». In altre parole, se uno sgarra in una questione personale, sono fatti suoi. I magistrati fecero di peggio. Tra coloro che lui aveva più volte attaccato vi era adesso chi indagava sulla sua morte. Vollero ignorare la pista mafiosa e preferirono scavare nel suo passato e nella sua vita privata. Pensarono perciò di tenere sotto controllo la famiglia e non si preoccuparono di quelli che dopo la sua morte avevano tirato un sospiro di sollievo. E così cercarono le prove sui conti correnti di Fava e non su quelli degli imprenditori e dei politici i cui affari illegali lui aveva denunciato”.

L’affermazione del dominio silenzioso di Santapaola, allora, avvenne solo a causa delle connivenze istituzionali di cui godeva, ai danni di una città tutto sommato ignara e dunque non colpevole? Non è questa la risposta che dà Ardita. L’affermazione del modello mafioso santapaoliano, il corto circuito intorno all’idea che potesse esistere una mafia buona, è una conseguenza del carattere intraprendente dei catanesi. Della loro vocazione commerciale e affaristica. L’autore arriva a sostenere che il metodo dei catanesi – basato sul principio della non contrapposizione con le Istituzioni e della co-gestione tra poteri pubblici e criminali – abbia dato origine alla c.d. trattativa Stato-mafia, messa a punto a Catania negli anni 70 e 80 e poi esportata dall’altra parte dell’isola.

L’idea di fondo che il magistrato catanese espone è che la mafia si sia servita della borghesia catanese – di cui il monopolio dell’informazione è espressione – per blandire gli uomini dello Stato e renderli complici dei suoi affari, sin dai tempi dei cavalieri del lavoro e fino a giungere all’attualità. Ha in quella volontà di affermazione, di portarsi avanti a tutti i costi, di riscatto sociale o di scalata sociale il suo brodo di coltura, quello dentro il quale un piccolo compromesso o chiudere gli occhi al momento giusto vale più di una presa di posizione coraggiosa o di un no urlato in faccia, se sono necessari a portare a casa il risultato. Perchè, in fondo, non si pensa che costituiscano cose di cui rispondere alla propria coscienza ma solo piccoli espedienti per far fruttare al massimo un placito quieto vivere.

Per questo Catania Bene, oltre ad essere un riconoscimento postumo alla memoria di quanti dissero no, da Pippo Fava a Titta Scidà, a lungo presidente del tribunale dei minorenni, è un pugno nello stomaco della città. E solo chi ama veramente Catania avrà il fegato di prenderselo.

Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI