La Caporetto dell'antimafia |Bindi vede quello che vuol vedere - Live Sicilia

La Caporetto dell’antimafia |Bindi vede quello che vuol vedere

Il dibattito alla Festa dell'Unità con Rosy Bindi

“E' giunto il momento di chiarire se l'antimafia non è stata usata per creare carriere e conquistare posti di potere”, ha detto a Palermo la presidente della commissione Antimafia. Ma davvero si vuole affrontare la realtà senza scorciatoie?

LA festa dell'unità
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PALERMO – Nei giorni più oscuri dell’antimafia, l’onorevole Rosy Bindi passa da Palermo per una bella serata di festa, la festa dell’Unità del suo Pd. E nel pieno della bufera, il presidente della commissione antimafia, che è politico d’esperienza e di riconosciute capacità, se la cava con un paio di battute che forse avrebbero meritato un maggiore approfondimento. La prima è quella per cui “nella lotta alla mafia non possono esistere secondi fini”. E pertanto, spiega Bindi, “è giunto il momento di fugare ogni dubbio e chiarire se in qualche caso l’antimafia non è stata usata solo per combattere la mafia, ma per creare carriere e conquistare posti di potere”. Una presa di coscienza piuttosto vaga e tardiva. Che arriva quando il de profundis per quella che questo giornale tempo fa definì l’antimafia delle carriere e degli affari, è già suonato da un pezzo.

La Bindi chiama in causa i “secondi fini” dell’antimafia chiodata pensando ovviamente al caos che ha travolto la Confindustria siciliana. Che sull’onda di quella celebrata antimafia ha sempre più irrobustito negli anni la sua azione di lobby, e che adesso si trova dilaniata da uno scontro tra inseparabili compagni di viaggio, fino all’altroieri, che per ora si consuma per lo più sulle pagine dei quotidiani in attesa di riscontri in cronaca giudiziaria. Sbrigativo sarebbe concentrarsi solo sulla punta di un iceberg, quello dell’antimafia delle carriere, le cui dimensioni sono senz’altro più corpose. E le cui ramificazioni arrivano dritte nella casa, politica, dello stesso presidente Bindi. Il suo Pd, quello che con la regia del campione della sempreverde antimafia politica, il senatore Beppe Lumia, ha costruito e portato a Palazzo d’Orleans un altro prodotto doc dell’antimafia strumentale: quel Rosario Crocetta che tanti disastri ha regalato e continua a regalare alla Sicilia. Con i risultati ben noti. Ma ci vorrebbe forse un’enciclopedia per elencare le carriere politiche garantite per anni dal brand dell’antimafia, tra cognomi eccellenti, magistrati folgorati sulla via della politica, persino dirigenti della più riverita lobby antimafiosa approdati nelle Istituzioni, magari a legiferare su materie che alle stesse stanno più a cuore. Storie diverse, intenti diversi (anche tanta buona fede, per carità), spessori diversi, un unico leit motiv, un unico equivoco di fondo: quello di aver trasformato l’antimafia in un marchio per iniziati, un club con tessere e spilline, sottraendo il tema della legalità al patrimonio comune, condiviso e universale a cui sarebbe dovuto appartenere. Sì, il supermarket dell’antimafia doc ha garantito nei suoi luccicanti scaffali posto per tanti. E soprattutto dalla parte politica della presidente Bindi. E su questo ci sono, per usare le sue stesse parole, pochi dubbi da fugare. Concentrarsi sulla punta dell’iceberg senza riconsiderare criticamente nella sua interezza questa lunga e controversa stagione sarebbe solo una comoda scorciatoia per la politica.

C’è poi l’altro aspetto, ancora più doloroso, della caduta dell’antimafia in questo complicato anno. Che ha visto, en passant, anche la clamorosa uscita di scena con tanto di porta sbattuta di Lucia Borsellino, le cui considerazioni sono state presto archiviate per comodità dal Palazzo. Non solo l’antimafia di politici e lobbisti ma anche quella togata vive, per l’inchiesta di Caltanissetta sui beni confiscati, una stagione oscura. I campanelli d’allarme c’erano stati. Come ha reagito la politica lo racconta la storia. Rosy Bindi dalla bella serata palermitana, a domanda ha così risposto: “La commissione deve recitare il mea culpa? Non credo, abbiamo preso le parole di Caruso molto sul serio. Non a caso abbiamo presentato il ddl che andrà in aula già a novembre”. Per farsi un’idea sul trattamento che la commissione Antimafia riservò al prefetto Giuseppe Caruso (che aveva denunciato le storture del sistema) quel 5 febbraio 2014 la cosa più utile, per chi ha il tempo, è leggere il resoconto di quella seduta. Che si commenta da sé. Per giudicare la tempestività della risposta della politica evocata dalla Bindi, invece, basta sfogliare il calendario. Da quel 5 febbraio sono trascorsi venti mesi tondi tondi. E la legge non è nemmeno arrivata in Aula per la prima lettura.

 

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