Le colpe di Crocetta e di Renzi |Sicilia ferita dalla strana coppia - Live Sicilia

Le colpe di Crocetta e di Renzi |Sicilia ferita dalla strana coppia

Il premier ha scelto di non scegliere. Aprendo la strada al quarto governo Crocetta in tre anni. L'Isola e il Sud restano ai margini dell'agenda di Matteo il rottamatore.

PALERMO – Nelle prossime ore Rosario Crocetta e il suo Partito democratico dovrebbero dar vita al quarto governo regionale in tre anni. Un’altra imbarcata di assessori, un altro papello di buoni propositi e annunci di svolta e cambio di passo. Nelle stesse ore, migliaia di operai della forestale attendono di conoscere il proprio destino, rischiando di ritrovarsi per strada, perché i soldi sono finiti e si aspetta che Roma dia il via libera per spostare fondi destinati in partenza alle infrastrutture. Nella speranza che l’Ars tamponi a tempo di record già in questi giorni.

E l’emergenza sociale dei forestali, eterna bomba a orologeria nei conti della Regione, è solo l’antipasto di quello che attende la Sicilia, alle prese con le voragini nei conti che al momento rendono impossibile mettere su un bilancio per l’anno prossimo, senza passare da un’intesa da Roma. Già, Roma. E quindi Matteo Renzi. Il convitato di pietra del disastro siciliano è lui. In questa ennesima replica della sceneggiata del rimpasto, c’è Crocetta sul palcoscenico a raccattare i pomodori lanciati da un’opinione pubblica esausta dalle pantomime della politica, come raccontano i commenti agli articoli di Livesicilia. Ma dietro le quinte, a distanza di sicurezza, resta il premier, che con la Sicilia da sempre non vuol sporcarsi troppo le mani. Ma che condivide con Palazzo d’Orleans parte della responsabilità dello spettacolo di questi giorni.

Responsabile Renzi, insieme a Crocetta, piaccia o meno ai suoi fedelissimi, che da questa crisi di governo escono più isolati. I renziani doc, per intendersi le truppe del colonnello Davide Faraone, hanno provato a giocare la carta del voto anticipato. E a convincere i compagni di partito e i propri referenti romani che era ormai ora di staccare la spina. E che i tentativi di rianimare una legislatura ormai bella che morente sarebbero stati vani. Ma fin qui non c’è stato verso di fare entrare in testa questa evidente verità. Agli uni e agli altri. A Palermo ha prevalso l’invincibile istinto di conservazione della poltrona. A Roma, dove una decisione di Renzi avrebbe potuto porre fine all’agonia, ha prevalso il calcolo sul rischio di una batosta elettorale che avrebbe consegnato una regione chiave come Sicilia al Movimento 5 Stelle. Che sarebbe stato davvero un brutto colpo per l’immagine di Matteo e compagni.

E così il Pd romano, per bocca del vice di Renzi Lorenzo Guerini, ha sdoganato Crocetta fino a dine legislatura, salvo sorprese. Rottamando in un sol colpo tutti gli sforzi che i renziani di Sicilia hanno portato avanti in questi mesi per distinguere su un piano di comunicazione i pastrocchi di Palazzo d’Orleans e le mirabolanti imprese di Palazzo Chigi. Ora Faraone prova a puntare tutto sull’incontro che domani Crocetta avrà a Roma col governo nazionale sui conti della Sicilia. Senza l’impegno di una mano della Capitale, nessuno tra i big di Sicilia si sente di imbarcarsi in un’avventura che promette solo lacrime e sangue. E che potrebbe vedere sfilarsi i renziani. Ma tutti in fondo sanno che  domani da Roma difficilmente arriveranno segnali definitivi nell’uno o nell’altro senso. Quello che politicamente andava detto lo ha detto Guerini. E amen.

Si va avanti, insomma, anche se con tutte le incertezze legate a conti. Anche se Roma e il governo di Matteo il rottamatore hanno ben chiaro il disastro in cui la Sicilia s’è impantanata nell’ultimo triennio. Sarebbe sufficiente passare in rassegna le impugnative degli ultimi mesi, che hanno fatto a pezzi le fantomatiche riforme dell’Ars. Quelle stesse riforme, fallite o abortite una dopo l’altra, nel nome delle quali verrà battezzato il nuovo governo.

È stato il consiglio dei ministri a smontare quelle leggi pasticciate. È stato lo stesso governo centrale a intervenire a colpi di commissari sui ritardi della Sicilia, come quello clamoroso sulla realizzazione dei depuratori, che rischia di costare carissimo ai siciliani. O come quello sui rifiuti, altra dolente nota alla voce occasioni mancate della legislatura. Insomma, Renzi sa tutto del fallimento del suo Pd in Sicilia. Ma si guarda bene dall’intervenire, lasciando la rogna al suo fedelissimo Faraone e al partito siciliano.

Hic sunt leones. La Sicilia e la sua disperata tragedia non possono distrarre troppo il manovratore di Palazzo Chigi. Gli indicatori raccontano il disastro, dalla disoccupazione al pil. Le autostrade chiuse, le ferrovie bloccate, le frane a ogni punta cantoniera stanno diventando parte integrante del paesaggio, insieme alla desertificazione industriale. Resta l’assistenzialismo della Regione stipendificio. E forse nemmeno quello. Il dramma dei forestali lo testimonia. Anche qui si aspetta un cenno di Roma. Ma c’è, appunto, da aspettare. Perché i tempi della Capitale e di Renzi non sono sintonizzati con quelli della tragedia siciliana. Che è poi un pezzo della tragedia di quel Sud che sempre più perde terreno dal Nord, completamente sparito dall’agenda nazionale, malgrado quella cinica presa per lo streaming che fu la direzione del Pd a gentile richiesta di Saviano.

Con Renzi, come era successo con chi è venuto prima di lui, la questione meridionale è rimasta del tutto marginale. Qualche settimana fa a Palermo, il presidente del Partito democratico Matteo Orfini, sollecitato sul tema, faceva notare come nella classe dirigente nazionale del Pd il Sud sia praticamente assente. E così le sperequazioni tra le due Italie non solo non si riducono, ma si aggravano. Solo di pochi mesi fa il dossier della Banca d’Italia che spiegava come a pagare la crisi dei bilanci locali, e soprattutto le misure fiscali messe in campo per puntellarli, sono state soprattutto le famiglie del ceto medio e medio-basso del Centro-Sud, dove le tasse chieste da Regioni, Province e Comuni arrivano spesso a chiedere una quota che oscilla fra il 6 e l’8% del reddito disponibile. E che al Sud si paghino più tasse lo gridava a gran voce un recente studio dello Svimez. Lo sa bene Renzi. Che ha trovato l’uovo di colombo. Dopo anni di tagli di trasferimenti dallo Stato alle regioni, quei tagli (e quei mancati riconoscimenti) che hanno determinato, insieme alla cattiva gestione della politica siciliana, il tracollo finanziario della Regione, quei tagli che hanno portato negli anni le regioni e di riflesso gli enti locali del Sud a portare a livelli ben più alti della media nazionale la tassazione locale, il premier ha trovato la soluzione: Regioni ed enti locali non potranno aumentare le tasse. Ma quelle con disavanzi sanitari e piani di rientro in corso (otto, tra cui la Sicilia), potranno valutare un aumento dei ticket, oltre a quello delle addizionali Irpef e Ires previsto “in automatico” dalla legge proprio nei casi di disavanzo sanitario. Al netto dei proclami, insomma, i costi si scaricheranno in un modo o nell’altro sui cittadini. Che al Sud, dove la ripresa non si vede e la tassazione è già altissima, boccheggiano. Proprio come i conti della Regione siciliana. Che dopo aver rinunciato ai contenziosi miliardari per una mancia, aspetta ora un aiuto da Renzi. Aspetta. E spera.

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