"Ero la loro cassa privata" | La ribellione dopo vent'anni - Live Sicilia

“Ero la loro cassa privata” | La ribellione dopo vent’anni

La storia dell'imprenditore Domenico Toia è emblematica. Dagli affari miliardari allo stato di indigenza: tutta colpa dei pagamenti imposti dai boss di Bagheria. La storia: l'uomo che pagava il pizzo in lire (clicca qui per leggere).

bagheria, IL BLITZ
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PALERMO – Da amico dei boss a stritolato dai boss. “Mi consideravano praticamente come la loro cassa privata.”, ha raccontato Domenico Toia. L’imprenditore bagherese ha fatto in tempo a denunciare la sua triste storia ai carabinieri. Poi, circa un anno fa, è morto colpito da un’improvvisa malattia.

La sua parabola è emblematica. I carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo ne hanno ricostruito i passaggi, inseriti nell’ordinanza di custodia cautelare che ha raggiounto ventuno persone. Toia si era ribellato al racket nel 2013, quando i mafiosi di Bagheria lo avevano ormai spremuto. Non c’era più succo nelle sue aziende. Eppure era stato una potenza economica. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta le commesse, pubbliche e private, arrivavano a pioggia. La mafia che, per stessa ammissione dell’imprenditore, lo aveva agevolato gli presentò il conto. In un ventennio Toia era passato dai fatturati miliardari allo stato di indigenza. Colpa delle continue richieste di denaro.

I capimafia finivano in carcere – Nicolò Eucaliptus, Onofrio Morreale, Gino Mineo, Pino Scaduto – ma c’era qualcuno sempre pronto a presentarsi per battere cassa attraverso gli esattori di turno: Sergio Flamia, Giovanni Trapani, Atanasio Leonforte, Antonino Barone.

I boss si fecero vivi per la prima volta “verso la fine degli anni 80-inizi anni ’90, ancor prima che venisse pubblicato il bando relativo alla manutenzione dell’impianto di illuminazione pubblica comunale di Bagheria”. Poi, qualcuno dell’ufficio tecnico gli fece sapere che “gli amici avrebbero avuto il piacere dell’aggiudicazione dell’appalto alla mia ditta”. E aggiudicazione fu. Subito dopo cominciarono le richieste di assunzioni di parenti e amici dei mafiosi. E soprattutto di soldi. Per la precisione “3 milioni di lire al mese per i parenti di Pino Scaduto, che nel frattempo era finito in cella”, per un totale di 360 milioni.

Poi, toccò a Nicolò Eicaliptus, altro pezzo grosso della mafia bagherese, avanzare una strana richiesta di pizzo: “… mi obbligò quindi ad immettere liquidità nel Bagheria calcio, ripianando i debiti ed investendo danaro da lui gestito, per un totale di circa 400 milioni di vecchie lire”. Quando anche Eucaliptus finì in cella, ecco farsi sotto Gineo Mineo che lo volle incontrare mentre si trovava confinato nel Trapanese: “Mi chiedeva la somma di l 00 milioni di lire che dovevano da lui essere investiti nell’apertura di una attività imprenditoriale a Trapani”. Toia riuscì ad ottenere uno sconto fino “a 50 milioni di lire, glieli consegnai in 5 rate da 10 milioni di lire in contanti, che gli feci recapitare una volta attraverso il nipote Francesco Raspanti, una volta attraverso il cognato Antonino Raspanti ed altre tre volte gliela consegnai di persona, andando a trovare Mineo a Trapani”.

Poi, il potere a Bagheria passo ad Onofrio Morreale, genero di Eucaliptus: “Questi, di continuo, mi richiedeva danaro per il pagamento delle spese legali dei carcerati e per il sostentamento delle loro famiglie”. Toia era ormai finito in un vicolo cieco. La stagione dei grandi appalti era ormai un ricordo. Così come il benessere economico di un tempo. Erano rimasti i debiti e le pressioni dei mafiosi. Per tirare avanti Toia vendette a una coppia di russi la sua bella villa a Ficarazzi per 900 mila euro. I mafiosi lo attendevano al varco. Sergio Flamia lo invitò a seguirlo nella sua abitazione, dove lo attendevano Pino Scaduto, nel frattempo tornato libero, e Giovanni Trapani. Scaduto pretendeva “i suoi soldi per i lavori che mi aveva fatto ottenere”. Non gli bastarono alcune somme in contanti. Toia fu costretto a cedergli un magazzino a Ficarazzi. Valeva 300 mila euro.

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