E dopo i nativi digitali | arrivano i mobile-born - Live Sicilia

E dopo i nativi digitali | arrivano i mobile-born

Ecco i web-baby, che ancor gattonando sfiorano con agili ditine le lisce superfici degli schermi elettronici; imparano a camminare, a parlare e, parallelamente, a usare i sistemi digitali.

La fortunata locuzione ‘nativi digitali’ è già superata. In un mondo che corre, si delinea, con una sua identità peculiare, la generazione successiva, rappresentata dai piccolissimi figli di una società iper-connesssa, che giocano con tablet e smarphone e, dato molto più interessante, ne comprendono il funzionamento. Sono i mobile-born, i quali, da neonati, usano strumenti elettronici.

I nativi digitali sono dunque incalzati da una nuova categoria di soggetti-utenti. In principio era il ‘tardivo’, cresciuto senza tecnologia e scettico sul suo impiego. Poi venne l’ ‘immigrato’, nato in un mondo analogico, ma presto adattatosi a imparare a usufruire delle nuove tecnologie. Quindi fu il ‘nativo’, che, come recita il lemma, dalla nascita ha a che fare con internet, computer e cellulari. Oggi i riflettori si accendono sul web-baby, che ancor gattonando sfiora con agili ditine le lisce superfici degli schermi elettronici; impara a camminare, a parlare e, parallelamente, a usare i sistemi digitali. Uno studio di Common Sense Media, condotto negli Stati Uniti, ha rilevato che il 38% dei bimbi posa le manine su un dispositivo mobile prima dei due anni di età (nel 2011, la percentuale era del 10%), e il 63% dei minori di 8 anni ci gioca.

I mobile-born, nuovissima generazione di nati in un mondo nel quale il digitale è parte integrante della quotidianità, sono sempre di più, e i numeri lo confermano. In un articolo pubblicato alla fine del 2013 su TechCrunch, ‘The rise of the mobile-born’, il general partner di Foundation Capital, Paul Holland, si chiedeva -constatato che si vive un’era che non ha precedenti di alcun tipo nella storia dell’uomo- quale sia il futuro di questa generazione. E’ una nuova sfida. Se oggi gran parte delle attività vengono svolte usando strumenti tecnologici e Internet per lavoro di ufficio, reperimento, salvataggio e scambio dati, comunicazioni con colleghi o clienti, comprare e vendere prodotti, il trend può solo risultare fortemente accelerato, poiché le compagnie future si fonderanno interamente su nuove aspettative riguardo alle strutture e all’organizzazione del lavoro. L’approccio del mobile-born alla rete e ai dispositivi indurrà a ripensare modi e tempi della tradizionale giornata in ufficio, tra interfacce, software e hardware da rimettere al passo coi tempi; sempre se gli uffici, come li conosciamo oggi, esisteranno ancora. Interattività è la parola chiave, sia nel mondo del lavoro che in quello del divertimento. Già adesso, un ragazzo alle prese coi compiti di scuola, usa tv, laptop, smartphone, iPod e tablet tutti insieme.

Per molti incauti, sembra che ci sia ancora tempo per vedere come sarà cambiato il mondo quando i mobile-born saranno grandi; di certo non interessa alle aziende, preoccupate piuttosto di non lasciarsi sfuggire questa promettente fetta di consumatori. L’attenzione dei bambini verso gli strumenti tecnologici è l’ultima sfida del mercato globale. Intel, per esempio, ha appena acquisito Kno, una startup specializzata nella costruzione di software educativi, il cui prodotto di punta sono i libri di testo interattivi da sfogliare tramite mobile. Mark Zuckerberg, a sua volta, ha investito (insieme a un colosso come Google) in Panorama Education. La startup, nata nel 2012, utilizza i sondaggi online per raccogliere dati che poi vengono elaborati per migliorare l’ambiente scolastico. La utilizzano circa 400 scuole in tutti gli Usa per un totale di un milione di ragazzi, ma il prossimo obiettivo è l’espansione in tutto il mondo.

Per emulare il più grande oggetto del desiderio collettivo, poi, qualcuno ha astutamente creato una versione per l’infanzia di Facebook. La startup israeliana Twigis ha lanciato un social network, che funge anche da portale di informazione e divertimento, con news selezionate, chat controllate, giochi e una moderazione costante e filtrata, per i bambini fra i 6 e i 12 anni. La piattaforma, nata in Israele grazie a un investimento di 7 milioni dollari, conta nel mondo circa quattro milioni di utenti unici (è già attiva in Russia, Turchia e Sud America). In Italia è stata sviluppata in collaborazione con Rcs, in quanto, in ogni parte del mondo, la scelta aziendale è stata di stringere delle partnership con i colossi dell’informazione, conservando però la gestione della piattaforma.

La sicurezza dei piccoli utenti è fondamentale, se si considera che milioni di bambini si collegano costantemente a Internet; secondo un’infografica illuminante di uKnowKids, dal significativo titolo ‘Should Facebook Allow Children Under 13 To Create Profiles?’ che segnala lo stato delle cose -e le discrepanze tra i dati reali e quello di cui i genitori sono convinti-, il 38% dei bambini al di sotto dei 13 anni ha un profilo su Facebook (il che significa sette milioni e mezzo di bambini nel 2014), e il 55% degli adolescenti fornisce i propri dati online anche a perfetti sconosciuti. E’ vero quindi che i bambini navighino in rete; non è altrettanto vero che si muovano in un ambiente pensato per loro.

Sembra dunque che Twigis abbia cercato di rispondere ai problemi della sicurezza dei minori. Le attività e i post sono controllati; ha un innovativo sistema anti bullismo, che può arrivare alla espulsione dal sito dei molestatori; niente fotografie; si crea un proprio account email da usare per giocare e interagire con gli altri utenti; non si possono mandare e ricevere messaggi dall’esterno. La piattaforma ha grandi potenzialità di sviluppo, e vuole essere un nuovo modo di considerare Internet per i bambini che affrontano le prime esperienze digitali in rete sempre più presto; segnerebbe la differenza rispetto ai social network tradizionali attraverso i quali gli utenti minorenni accedono a contenuti e funzioni pensate per un pubblico adulto.

Ma non è tutto oro quel che riluce; già all’inizio del 2014, Altroconsumo segnalava che un bambino può registrarsi su Twigis anche senza la supervisione del genitore, può inserire un nickname di fantasia, anche se è vero che non può caricare una foto personale. Se il genitore dà il consenso durante la fase di registrazione, il bambino può navigare sul portale a pieno ritmo; se invece non c’è l’approvazione il baby informatico potrà comunque accedere alla maggior parte degli strumenti proposti dal portale. Secondo l’analisi, i piccoli utenti possono incontrare link a siti di vendita di cui non vengono garantiti contenuti e sicurezza e ovviamente ci sono numerose clausole riguardanti la limitazione di responsabilità in caso di colpa, danni, costi, pagamenti e altro ancora. Infine, nelle note di privacy, viene acomunicato che i dati personali saranno utilizzati a fini di marketing. La solita, vecchia storia: il business prima di tutto, altro che sicurezza.

Non tutti, però, guardano alla manipolazione dei mobile-born con il medesimo favore. Una voce autorevole, data l’esperienza sul campo e l’illustre parentela, si è levata fuori dal coro. Randi Zuckerberg, sorella del fondatore di Facebook, ha pubblicato un libro per bambini nel quale invita i piccoli a non abusare della tecnologia e consiglia ai bambini di non usare troppo i social network. La piccola protagonista, Dot (sic!, da Dot com), totalmente dipendente dal suo smartphone, si rende conto che la realtà è altro, e scopre quanto il mondo è divertente solo dopo averlo finalmente dismesso. Un invito alla vita che dovrebbe essere preso sul serio.

Piuttosto che chiedersi come sarà il mondo da adulti dei bambini di adesso, si pensa solo a renderli, se possibile, ancor più ‘hi-tec’, con buona pace di un substrato culturale che andrebbe formato proprio negli anni giovani. Insieme ai social a loro dedicati, fioriscono difatti i campus tecnologici per i più piccini, che ricevono stimoli per scoprire i propri talenti in ambito digitale, imparano a usare il computer per realizzare progetti personali e sviluppare le abilità trasversali che si acquisiscono lavorando con altri. Il quesito da porsi è se i dati di realtà corrispondano a tanto ottimistico entusiasmo. Le proposte studiate per far trascorrere ai più piccoli qualche giorno (o qualche settimana) in compagnia dei coetanei tra mouse e tablet, videogiochi e robot, sono, nei fatti, programmate per gruppi. Ma, sempre nei fatti, come si invoglia al dialogo un (piccolo) individuo ben concentrato sul proprio schermo? Sembra fantascienza nella fantascienza. Davvero si è certi che essere a contatto dalla nascita coi dispositivi e destreggiarsi sin da piccoli tra software e hardware rappresenti un modo per non subire la tecnologia, ma usarla in modo consapevole? E come si forma una coscienza critica? E, ancora, si vuole davvero che tale processo di formazione si realizzi, o si preferisce un acritico popolo di consumatori?

Intanto, occorre registrare che Twigis, questa sorta di edulcorato limbo, è un vero e proprio ‘flop digitale’. E’ stato difatti incluso nell’elenco delle scelte strategiche digitali fallimentari di Rcs, in base a quanto dichiarato da Domenico Affinito, giornalista e azionista dell’azienda, nel suo intervento in seno all’assemblea degli azionisti Rcs del 23 aprile 2015. Secondo i dati riferiti, l’obiettivo dichiarato era quello di raggiungere più di 900mila utenti entro un anno, invece, a ben più di dodici mesi dal lancio, il numero di utenti risulta di poco più di 69mila. Lo scarto è enorme, pari a 13 volte la stima.

Vogliamo dirlo chiaramente? Ai bambini, piace Facebook, e a loro non importa certo dei rischi. Desiderano sentirsi grandi, affacciarsi a un mondo adulto come piccoli cloni dei genitori, mutuandone gli atteggiamenti. Se papà e mamma sono sempre collegati, e postano dallo sbadiglio del lunedì mattina allo spezzatino della domenica, perché i figli non dovrebbero desiderare di fare altrettanto coi loro piccoli amici? Al di fuori del problema -che, ripeto, non tocca a loro porsi-, del controllo, in un mondo che fa della disgregazione sociale il proprio connotato fondamentale, i social network sono un modo facile e rapido di comunicare. Peraltro, quali alternative vengono poste a un bambino, a un adolescente, e quanto di frequente? Ecco che restare in uno spazio chiuso a chattare con gli amici spesso è tutto quello che hanno sul piano della socializzazione. E gli adulti in genere ne sono contenti, che lo ammettano o no, come erano contenti di parcheggiare la generazione precedente davanti alla televisione fino all’istupidimento. Anni di auto-educazione all’individualismo ci hanno indotto a non condividere davvero nessuna emozione, altro che i post di Facebook, ai quali un coro ristretto, nel trionfo del do ut des mediatico, appone un like per ottenerne il ricambio! Non siamo più capaci di condividere in modo spontaneo, sincero, nemmeno pochi bit. Facebook ha stravolto, peggiorandoli, i rapporti umani. Tagghiamo di tutto, altrimenti ci sentiamo esclusi, ci sentiamo MALE. E i bambini ci guardano, come recitava il vecchio capolavoro anticipatore del neorealismo di De Sica; occhi innocenti registrano, ora come allora, cambiamenti epocali, tra i quali il primo è la dissoluzione della famiglia.

Il tempo fugge; il pranzo della domenica organizzato da nonni affettuosi e presenti, le passeggiate con i genitori, l’acquisto dei libri, i viaggi in automobile, le conversazioni, quel parlare, parlare e parlare che era scambio, chiarimento, conferma dell’attenzione da ricevere e da dare, del contare per qualcuno, in una parola, dell’esistere, sono immagini color seppia assemblate nel novero dei ricordi.

Noi, siamo stati bambini. Siamo diventati digital immigrants, ma abbiamo avuto un’infanzia, noi. Ai bambini di oggi, digital native o mobile-born che siano, la stiamo rubando. E attendiamo inerti la prossima generazione; inventeremo gli switched on birth, partoriti, grazie a raffinate tecniche implantologiche, con uno smartphone incollato alla manina.

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