Viaggio tra le rovine di Palermo| Città di demoni e leoni immaginari - Live Sicilia

Viaggio tra le rovine di Palermo| Città di demoni e leoni immaginari

Dal numero di Panorama in edicola. Dov'è la città che incantava i viaggiatori, che splendeva negli occhi dei suoi ammiratori, che sfolgorava di bellezza nei versi dei poeti? Al suo posto c'è un labirinto di grovigli maleodoranti. E anche l'antimafia, ormai travolta dagli scandali, è solo una sbiadita memoria di giorni passati.

Cominciamo con un filino di retorica. Ma dov’è finita Palermo? Dov’è finita la città dei giardini e dei capricci barocchi, delle delizie arabe e delle meraviglie normanne, la città che i grandi viaggiatori ammiravano con occhi lucidi e insaziabili? Dov’è finita la Palermo felicissima alla quale Ibn Hamdis non aveva voluto strappare per ricordo neanche un fiore di gelsomino? «Vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei» si limitò a scrivere nel suo diario lo sventurato poeta costretto dai nuovi invasori a tornarsene nella sua Arabia infelice.

Povera Palermo. Quella che c’era non c’è più; e quella che ancora resiste, affonda giorno dopo giorno in una palude di monnezza, rinchiusa in un gigantesco labirinto fatto di strade sventrate, di piazze recintate, di quartieri blindati, di periferie stravolte dai tanti bulldozer che sfondano a destra e a manca pur di trovare un varco alla nuova linea dei tram o al passante ferroviario. Chi la salverà?

 A prima vista ti sembra la porta dell’inferno. Anche se il sole fiammeggia cupole e tetti, e lo scirocco ti afferra per la gola. Ma se alzi lo sguardo dalle cataste di rifiuti o dai cantieri senza fine e torni benevolmente al dialogo e alla tolleranza, ti accorgi che il sindaco Leoluca Orlando non ripete certo lo slogan che negli anni Sessanta fu di Salvo Lima – “Palermo è bella, facciamola più bella” – ma non se ne allontana nemmeno troppo. Lui, che nel mezzo del cammin della sua vita fu anche rivoluzionario, ha cambiato registro: illustra programmi e provvedimenti amministrativi, annota i problemi, elenca i disastri e, con il periodare suadente del piccolo profeta, puntualmente annuncia che la salvezza è vicina: questione di giorni e la Palermo che è bella sarà ancora più bella. La fede, diceva San Paolo, è sostanza di cose non viste e di cose sperate.

Ma quale speranza? La parola richiama il nome che Caspar David Fiedrich diede a un quadro dipinto negli anni della sua malinconia: vi si vedeva una nave che stava per naufragare in un universo di ghiaccio sul quale però, prima o poi, si sarebbe magari posato, caritatevole, un raggio di sole. La speranza di Palermo invece è imprigionata da tonnellate di spazzatura e dal fumo che, soprattutto d’estate, sale dai cassonetti e ammorba ogni palazzo, ogni casa, ogni stanza. Trovi roghi a ridosso degli ospedali e delle chiese, al fianco degli alberghi e dei ristoranti. E se non fosse per gli straccivendoli che saettano da un immondezzaio all’altro in cerca di rame, diresti che la Palermo di notte è diventata la rappresentazione teatrale del deserto che ormai la avvolge e la mortifica: c’è il deserto delle industrie che non ci sono più e quello delle botteghe che hanno abbassato definitivamente le saracinesche; c’è il deserto delle librerie, come quella di Fausto Flaccovio nel cuore di via Ruggero Settimo, che hanno ceduto il passo agli intimissimi negozi di mutandine e reggipetto; e c’è il deserto dei mercati popolari, come la Vucciria, che un tempo ispirarono quadri voluttuosi, come quello di Renato Guttuso, e oggi li ritrovi scheletriti, senza voci e senza colori, prosciugati dal tempo e dalla crisi economica, accerchiati dal biancore di supermercati zeppi di surgelati e di luci al neon.

I fuochi che divampano nottetempo dal Cassaro a Ciaculli, da Ballarò a Settecannoli, non anneriscono solo i quartieri e le borgate della città. Non sfregiano solo i palazzi spagnoleschi di Casaprofessa davanti ai quali Emma Salvo di Pietraganzili, durante l’afflizione della guerra, si affacciava al balcone e declamava Goethe in tedesco. Aggrediscono anche tutto ciò che avrebbe potuto riportare Palermo a una soglia minima di civiltà. Prendiamo l’antimafia. Se restasse ancora spazio per un altro filino di retorica, sarebbe forse il caso di ricordare su quale sangue e quali lutti questa città si era data – non senza fatiche, non senza contraddizioni – una coscienza civile.

Si potrebbero ricordare le lacrime versate ai funerali di Giovanni Falcone; o lo strazio che, appena due mesi dopo, accompagnò alla tomba il feretro di Paolo Borsellino. Ma a che servirebbe? Il fuoco dell’indifferenza e della delusione – ecco l’altro rogo, forse il più devastante – rischia di avvolgere e travolgere anche la sacralità delle memorie che appartengono in ogni caso a questa città. Perché il tradimento di quel martirio non comprende solo il paradosso di un’antimafia piegata alla ragioni di una politica maleodorante, come quella di Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia che in tre anni ha cambiato quattro governi e 42 assessori. Ma ha investito pure, e nella maniera più scellerata, lo stesso palazzo di giustizia dove Falcone e Borsellino tentavano con ogni mezzo di sconfiggere boss di mafia e picciotti di malavita, omertosi silenzi e pelose amicizie. Lì, in quelle stesse stanze, proprio nella cosiddetta sezione antimafia, si è consumato per anni lo scandalo dei beni confiscati. Giudici e avvocaticchi, magistrati di primo pelo e alti papaveri del tribunale si sono avventati su quei patrimoni e su quelle ricchezze con l’avidità delle locuste dopo una carestia: al primo fruscio di un sospetto sequestravano ai mafiosi, o ai presunti tali, terreni e aziende, negozi e concessionarie di automobili e ne affidavano la lucrosa gestione a parenti, amici, ruffiani e amici degli amici. Altro che antimafia: nel cuore del Palazzaccio aveva messo le radici una cosca togata che, con la banalissima scusa della legalità, trasformava quella che era stata l’economia mafiosa in una riserva di caccia per i rampolli della vecchia e parassitaria borghesia palermitana, la stessa che per anni aveva omaggiato al Baby Luna, bar della Circonvallazione, l’elegantissimo Stefano Bontade, boss di Villagrazia e che subito dopo si era adattata alla prepotenza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, sanguinari boss dei corleonesi.

Chi fermerà i roghi della dissoluzione, chi fermerà il disincanto senza ritorno di un intellettuale come Aristide Carabillò che, da sociologo e francesista, ti rivolge la stessa domanda che Louis Sébastien Mercier ripeteva con un gemito davanti alle rovine di Parigi: “Que deviendra Palerme?”. Già, che cosa diventerà questo meraviglioso “sommario dell’universo” che gli svevi e gli arabi e poi i normanni e poi gli spagnoli e poi i borboni hanno edificato attorno a Monte Pellegrino, tra la Conca d’Oro e il mare dell’Acquasanta, tra Monreale e la scogliera dell’Addaura?

 “Viva Orlando e santa Rosalia”, gridavano durante l’ultima campagna elettorale i questuanti e i pagnottisti, gli intellettuali e i muzzunara, esaltati al solo pensiero di riportare dopo vent’anni a Palazzo delle Aquile il ragazzo col ciuffo, lo stesso che negli anni Ottanta aveva avuto l’ardine di sfidare i padrini e i patriarchi della Dc, che aveva inventato la “Primavera di Palermo” e che aveva saputo proporsi, suadente e feroce, come paladino dei poveri contro i ricchi, come eroe dei puri e duri in eterna lotta con coloro che preferivano trovare riparo nel ventre molle di una città dove era ed è ancora difficile distinguere i confini tra mafia e politica, tra arroganza e sudditanza, tra guelfi e ghibellini, tra gaglioffi e capipopolo.

Oggi, a quasi trent’anni di distanza, ’u sinnac’ Ollannu  è ancora seduto lì, sulla poltrona più alta di palazzo delle Aquile. Ma dei bei tempi andati gli è rimasto il ciuffo sudaticcio appiccicato sulla fronte. Per il resto, ha ragione il professore Carabillò: la città è quella che era: la stessa monnezza, gli stessi roghi, le stesse ferite degli anni tremendi e immondi.

Riuscirà l’Orlando della seconda stagione a imporsi nella nuova savana della politica e ad addentare i demoni del malgoverno? E’ probabile. Palermo, del resto, non ha altri leoni. Gli unici di cui c’e’ traccia sui libri sono quelli, “lenti e attoniti”, intravisti nell’ebbrezza di una notte di sogno da Bruno Barilli, poeta e librettista, forse suggestionato dalla dicitura frontale del tram che dal fiume Oreto arrivava fino a piazza Leoni, alle porte della Real Tenuta della Favorita. Erano belve dal “crine fosforescente” che si svegliavano al crepitio delle Pleiadi, belve fatte apposta per notti d’amore e d’azzardo, per notti di soave delirio; per le notti ruggenti di una Palermo immaginaria, lussuriosa e arabeggiante. Ma soprattutto bella, incantata e senza monnezza.

 


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