Il terribile fantasma della povertà - Live Sicilia

Il terribile fantasma della povertà

Un esercito di precari, un esercito di disoccupati: tutti perdono nella guerra dei poveri.

Uno spettro s’aggira per l’Italia. No, non si tratta di giustizia sociale, tutt’altro. Il fantasma ha un nome terribile: povertà. Il mercato del lavoro comprime sempre più la fascia di età dei lavoratori occupati; il tasso di disoccupazione giovanile cresce, gli over-50 vivono il dramma dell’espulsione dal mondo della produzione; in questo quadro, il futuro del Paese resta sfumato. Il precariato non incide soltanto sulla più che cospicua categoria di persone direttamente coinvolte nel problema, ma su intere generazioni.

Una ricerca del Censis prevede che i giovani più ‘fortunati’, quei 3,4 milioni inseriti nel mercato del lavoro, a fine carriera avranno una pensione di molto inferiore allo stipendio, meno di mille euro al mese. Poi ci sono categorie per le quali si prospetta un vuoto assoluto: gli 890mila autonomi o con contratti di collaborazione e i 2,3 milioni di Neet, che non studiano né lavorano. I giovani di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani. Con le regole del contributivo, coloro che non raggiungono un certo ammontare di prestazione prima dell’età pensionabile, in particolare i nati dagli anni Ottanta in poi, sono destinati a non percepire alcuna pensione. Se un sistema pensionistico si basa esclusivamente sui contributi esistono due soluzioni: aumentare il reddito, oppure i contributi, e ciò risulta irrealizzabile se non si eliminano le fasce di precariato. L’ennesimo cane che si morde la coda?

La storia infinita dei precari siciliani è stata efficacemente sintetizzata da Accursio Sabella all’inizio dell’anno (‘Conti, Sanità, precari e riforme. Tutti i nodi da sciogliere nel 2016’, Live Sicilia, 2 Gennaio 2016): dopo la ‘proroghina’ per gli oltre 22 mila precari siciliani, appare chiaro che ‘le proroghe non potranno essere infinite’. La proroga passata in commissione alla Camera è di un solo anno. Niente proroga triennale, niente agenzia Stato-Regione per la preannunciata stabilizzazione, niente normativa che, per l’utilizzo dei precari, conceda una deroga ai Comuni in dissesto o sottoposti a piano di rientro: e niente, dunque, cambia. La pelle dei lavoratori, e del tessuto sociale cui appartengono, sembra utile solo alla costruzione e all’uso del fantozziano tamburo dei potenti.

E dire che una recentissima sentenza della Corte Costituzionale (11 Dicembre 2015 n. 260), ha statuito che estendere il divieto di conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato, anche nell’ipotesi di un vizio genetico del primo, pregiudica un aspetto fondamentale delle tutele previste dall’Ordinamento ai rapporti di lavoro pubblico. La Suprema Corte  ha pertanto rinviato a quanto sancito da due sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (del 26 febbraio 2015 e del 26 novembre 2014), che valorizzano il ruolo della ‘ragione obiettiva’ come mezzo adeguato a prevenire gli abusi nella stipula dei contratti precari.

Sembrerebbe un momento storicamente favorevole per invocare (e pretendere) dal legislatore regionale e nazionale una normativa organica sulla tematica del lavoro a tempo determinato. Secondo recenti stime, i precari hanno ormai superato sul territorio nazionale la cifra di 150 mila persone, di cui quasi un terzo concentrato nei comuni. Nella classifica regionale dei precari occupati negli uffici comunali, la Sicilia vanta l’ennesimo infausto primato. Esiste una soluzione al problema? Prima di formulare ipotesi, sarebbe opportuna l’analisi dei dati. In uno dei suoi ultimi articoli, pubblicato da Live Sicilia il 6 luglio 2014, Mario Centorrino aveva condotta una disamina tanto valida da essere tuttora utilizzata (spesso senza citarne la fonte) da autorevoli quotidiani, che riproponiamo. All’interno del bacino numerico dei precari in Sicilia, vi sono gli LSU (Lavoratori Socialmente Utili) degli enti locali, circa 18.500, in servizio da una ventina d’anni, i quali costano circa 300 milioni all’anno. I precari della sanità sono circa duemila. Riguardo ai precari regionali, la maggior parte è stata stabilizzata nel 2011; restano circa 700 contrattisti della Regione, 3mila PIP (Piani di Inserimento Professionale), 1000 operai dei Consorzi di Bonifica. I cosiddetti ‘trattoristi’ dell’Ente di sviluppo agricolo sono poco meno di 500, e dovrebbero lavorare ogni anno per 178 giorni al costo di circa 10 milioni. La categoria maggiore è costituita dai forestali, che costano circa 300 milioni all’anno.  Poi ci sono i lavoratori delle Opere Pie, 2000 persone, e i precari dell’Irsap.

L’eliminazione del precariato in Sicilia comprenderebbe l’abbandono di vecchi stilemi di pura e semplice stabilizzazione per affrontare un problema basilare -come fare diventare i precari da voce penalizzante del bilancio regionale a risorsa produttiva-, e procedere a un’urgente mappatura ricognitiva, dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo, che non esiste malgrado l’annosa criticità del precariato in Sicilia.

Le possibilità progettuali si articolano secondo due direttrici: il settore privato e quello pubblico. Sotto il profilo delle ricadute sul mercato del lavoro, un progetto che preveda, concedendo dei benefici, l’assunzione di personale preso dal bacino dei precari da parte delle imprese, significherebbe, se l’impresa considera l’occupazione una variabile indipendente, ed è già al completo per quanto riguarda i suoi organici, il corrispondente licenziamento di eguale quota di dipendenti, quindi l’aumento della disoccupazione. Ovvero, qualora l’occupazione sia per l’impresa una variabile dipendente, l’esclusione simmetrica dell’assunzione di una corrispondente quota di lavoratori non precari e quindi, anche in questo caso, un mancato alleggerimento della disoccupazione. Ancora, un eccesso di occupazione per l’impresa potrebbe tradursi in una diminuzione di produttività. Infine, una falsa occupazione di precari creata al puro fine di rientrare nella premialità, potrebbe generare fenomeni di illegalità.

Secondo gli schemi d’una fantapolitica che, nel nostro Paese, risulta di solito poco ‘fantasiosa’ e molto reale, potrebbe avvenire persino che un precario assunto dal settore privato venga velocemente rimpiazzato nel pubblico! Il travaso provvisorio di precari dalla pubblica amministrazione al privato non avrebbe quindi, almeno nel breve tempo, effetti positivi sul bilancio della Regione, e provocherebbe squilibri nel mercato del lavoro. Per redigere e applicare una legge dotata di effettività, occorrerebbe stilare, oltre alla mappatura, liste di ‘qualifica’, effettuare selezioni, contrattare mobilità, formulare e aggiornare, sostenendo costi amministrativi tanto ingenti da far ritenere che le risorse da destinare al sostegno del precariato siano addirittura maggiori di quelle necessarie alla stabilizzazione del medesimo.

Sembra un problema senza soluzione. Siamo a una nuova ‘questione meridionale’? Si continua a denunziare una ipertrofia della pubblica amministrazione regionale nel Mezzogiorno, che, in Sicilia, va riportata a un mercato del lavoro asfittico e ad annose pratiche clientelari; il settore pubblico è stato usato, mediante politiche di assunzione di portata superiore alle reali esigenze, per fronteggiare le pressioni sociali, come ha più volte denunziato la Corte dei Conti. I sostenitori di teorie liberiste, ricordava Centorrino, sarebbero fautori della riduzione di organico, sfidando il rischio di una macelleria sociale, data l’impossibilità di reingresso dei licenziati nel mercato del lavoro. La sua proposta era, invece, la predisposizione di un piano di impiego produttivo del capitale umano disponibile, forzando vincoli contrattuali e resistenze sindacali, e facendo riferimento a precise domande di servizi a offerta debole e a domanda forte, come sanità, ambiente, istruzione, valorizzazione dei giacimenti culturali; restava consapevole tuttavia del fatto che le forme di razionalizzazione a favore del bene comune richiedono un doppio costo, economico e politico: il primo, per studiare ed effettuare le razionalizzazioni necessarie; il secondo, ‘per resistere a pressioni e ricatti da parte di chi vede intaccati privilegi e posizioni di rendita’. Il secondo costo gli sembrava decisamente insostenibile.

La storia recente gli ha dato ragione. Nell’indifferenza generale, il 24 settembre 2015 sono entrati in vigore gli ultimi decreti, immediatamente operativi, dell’iter legislativo che valida il Jobs Act, concludendo il progetto di ristrutturazione del mercato del lavoro in Italia. La precarietà viene sancita quale forma ‘strutturale’ del rapporto di lavoro, all’interno del quale il datore di lavoro ha una indiscutibile preminenza. L’assetto autoritario che fonda il nuovo diritto lavorista, cancellando diritti tradizionalmente acquisiti e rimuovendo gran parte delle tutele assistenziali dei lavoratori, ha instaurato modifiche davvero profonde, specie per la fascia giovanile, costretta ad accettare condizioni contrattuali di molto inferiori a quelle del passato pur di avere accesso a un lavoro e a un salario.

Un’altra questione merita il giusto rilievo: il recupero della nozione di ‘controllo’. Resuscitato e rivitalizzato Argo Panoptes dai cento occhi, per chi è così fortunato da essere occupato, la pedissequa obbedienza rimane l’unico comportamento possibile; l’articolo 23 del decreto n. 151 legittima l’invasione dell’intera sfera esistenziale dei dipendenti, tramite impianti, audiovisivi e quelli definiti genericamente ‘altri sistemi di controllo’: IPad, cellulari, veicoli aziendali, GPS, tabulati connessi al badge nell’entrata, nell’uscita, nella pausa. Si definiscono i contorni biopolitici del controllo diretto e indiretto sulla nostra vita. Più che rinnovato, il diritto del lavoro è stato rifondato su leggi che rievocano il foucaultiano ‘sorvegliare e punire’, che a ben altro contesto storico ed epocale faceva riferimento, avendo abdicato, spinti dal bisogno e dalla paura, i lavoratori a passate conquiste. Sottovalutare la portata di questo cambiamento è un suicidio politico in nome della pur legittima ricerca di sistemazione. Decantata la rabbia, subentrata la rassegnazione, occorre superare entrambe, e ripartire, tutti insieme, occupati e disoccupati, giovani e vecchi, per immaginare una nuova idea di bene comune che recuperi il desiderio di equità sempre più sfocato nella pratica, in un terreno condiviso di parametri oggettivi legati al rifiuto di considerare la realtà sociale come costituita da gruppi definiti e definibili solo sotto il profilo giuridico, inadeguato a cogliere la complessità dei rapporti sociali e delle sfere di interesse.

Alla fine degli anni Cinquanta, queste parole, che oggi suonano eversive, erano quelle di un -pur illuminato- ‘padrone’, Adriano Olivetti. Abbiamo un grande futuro dietro le spalle. 

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