L'antimafia dei cittadini comuni - Live Sicilia

L’antimafia dei cittadini comuni

Finché non celebreremo questa antimafia del cittadino comune, non riusciremo mai a spezzare le catene di chi ci vuole ancora schiavo.

Altri arresti di colletti bianchi a Palermo, altri insospettabili appartenenti alla borghesia accusati di essere a servizio della criminalità organizzata. Espressione estrema costoro, al di là dei profili penali ovviamente da accertare, della zona grigia di una città che nel tempo ha visto numerosi operatori della legalità massacrati da Cosa Nostra ma, anche, ampi strati della società palermitana della cosiddetta “Palermo bene” non prendere mai una posizione, dare le spalle nei momenti tragici, inclini all’assalto del carro del vincitore, ad allacciare rapporti con i potenti di turno senza mai farsi troppe domande, cinicamente indifferenti alla qualità etica dei propri referenti e interessati esclusivamente agli affari, Dio sa quanto leciti.

Al contempo, sul fronte opposto di chi combatte la mafia con ruoli diversi, abbiamo assistito a gravissimi episodi che hanno pesantemente colpito settori delicati della magistratura e a polemiche roventi che hanno riguardato grandi organizzazioni che si occupano di beni sequestrati o confiscati alla mafia. Mi limito, in proposito, a richiamare, condividendolo parola per parola, l’illuminante articolo del direttore Giuseppe Sottile su Livesicilia (da Il Foglio) “La capriola della Bindi su don Ciotti è la prova che Libera è anche una lobby”. Qui, invece, desideriamo avanzare delle riflessioni, suscitate dai fatti di cronaca citati e dall’articolo di Sottile, su due dogmi laici della storia siciliana, dalle stragi di mafia del ’92 a oggi: la “società civile” e “l’antimafia”. I termini “società civile”, intesa come il rifugio confortante tra le macerie delle collusioni tra mafia e i palazzi del potere, di qualunque potere, e l’aggettivo “antimafia”, appiccicato addosso a uomini e cose, addirittura a sacerdoti, come se così si potesse esorcizzare la presenza cancerogena di un fenomeno che non sta dall’altra parte, come un esercito apertamente schierato, ma subdolamente in mezzo a noi, hanno rappresentato e rappresentano un’illusione pericolosa per gli onesti mentre, per i disonesti, una maschera dietro cui continuare tranquillamente nelle attività criminali.

Tra gli onesti, che pensavano di essere al sicuro perché figli della “società civile”, immacolata per definizione da contrapporre alle caste inquinate, e i disonesti, che hanno pensato bene di usare l’antimafia per più facilmente favorire la mafia o accrescere il conto in banca con le tangenti, troviamo, in un gradino superiore, persone assolutamente perbene che forse non si sono accorte di essersi oggettivamente servite di posizioni-guida nella “società civile” e del distintivo “antimafia” non solo per assicurarsi lustro e magari consenso elettorale, ma per demarcare un confine netto tra una sorta di patriziato nella lotta alla mafia, foriero di carriere e riconoscimenti, e il resto dei comuni cittadini. Un errore esiziale, che se ipocritamente taciuto lascerà la Sicilia nel suo immobile pantano.

In realtà, finché non vi sarà una consapevolezza collettiva, che parta dal licenziare definitivamente politicanti e faccendieri, adusi a scellerate compagnie, e giunga ad una “antimafia diffusa” dei semplici cittadini che spazzi via l’antimafia di facciata di opportunisti e carrieristi, e si anteponga a quella di pochi illustri e stimabilissimi protagonisti, non riusciremo mai a raggiungere l’obiettivo di affrancarci da mafia, cattiva politica e malaffare. Quando parlo “dell’antimafia diffusa” penso alle migliaia e migliaia di sconosciuti, senza scorte, telecamere e riflettori al seguito che nell’anonimato affermano ogni santo giorno, disarmati e sovente nel buio della solitudine, da Palermo a Pachino, i valori della legalità e della vita affrontando a viso aperto la violenza o le suadenti tentazioni dei boss e degli amici degli amici. Ecco, finché non celebreremo questa antimafia del cittadino comune, per sua fortuna privo della drammatica esperienza di un familiare ucciso da mano mafiosa, finché non daremo spazio alla buona politica, ai giovani che meritano, agli imprenditori e ai commercianti che dicono “basta!” al racket e al pizzo, a coloro che gridano “no!” alla morte e alla sopraffazione in ogni luogo di lavoro e dell’esistenza umana, non riusciremo mai a spezzare le catene di chi ci vorrebbe schiavi in eterno. Non riusciremo mai a proteggere fino in fondo magistrati in prima linea come Nino Di Matteo e le donne e gli uomini delle forze dell’ordine. In una parola, non riusciremo mai a consegnare ai nostri figli, che per questo sono costretti a fuggire lontani, la terra finalmente bellissima dei sogni di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.

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