Così si affossa il dibattito | Riecco la cultura del sospetto - Live Sicilia

Così si affossa il dibattito | Riecco la cultura del sospetto

Le polemiche al veleno su Sicilia e-Servizi potrebbero essere l'occasione per ragionare su quale modello di Regione si vuole attuare. Ma accuse, allusioni e processi sommari stroncano il dibattito sul nascere.

PALERMO – Mentre la retorica antimafiosa cade a pezzi, quella politica rincorre nuovi spazi. E vive una fiammata di ritorno in questi giorni complicati di maratona all’Ars per la Finanziaria. Giorni che hanno visto involontari protagonisti due profeti della retorica legalitaria come quelli scelti da Rosario Crocetta per guidare le strategiche partecipate Sicilia e-Servizi e Riscossione Sicilia, cioè Antonio Ingroia e Antonio Fiumefreddo. Le due società sono state al centro dello scontro mercoledì e hanno portato ieri mattina il governatore a chiedere agli alleati se esiste ancora una maggioranza. Intanto, nel velenoso dibattito, era già rientrata, e in pompa magna, la cultura del sospetto anticamera della verità assai cara all’antimafia d’antan. Quella che nella dialettica politica salta a pie’ pari il confronto sul merito per puntare diritta alla giugulare del nemico di turno da marchiare con un detto e non detto in maniera criminalizzante.

Peccato, in fondo, perché la questione relativa a Sicilia e-Servizi avrebbe meritato di certo un dibattito più alto, essendo in ballo l’idea di fondo della Regione in rapporto al mercato. In discussione c’è il modello di Regione imprenditrice, quello delle partecipate col loro esercito di settemila dipendenti e i loro conti dissanguati, quello che ha imperato nell’Isola del quasi socialismo reale, poco importava che governassero destra, sinistra o centro. Un modello che potrebbe essere scardinato attraverso l’apertura ai mercati e alla concorrenza, in una logica di risparmi e di migliore qualità dei servizi per i cittadini. Questo per lo meno in un quadro ideale, visto che la storia degli affidamenti ai privati dei servizi pubblici in Sicilia è costellata di pagine oscure e assai discutibili, che si tratti di beni culturali o di rifiuti.

Insomma, ce ne sarebbe eccome per impostare un dibattito una volta tanto di contenuti e per capire, cosa invero assai rara, che idea di Regione abbiano in mente coloro che sono chiamati a governare il baraccone. E invece, la rediviva cultura del sospetto fa saltare tutto. Perché Antonio Ingroia, nell’imbastire la sua critica alla scelta del governo, e del mai amato assessore Baccei in particolare, sciorina sì qualche numero contro la “liberalizzazione selvaggia” (quale altro aggettivo aspettarsi da un “rivoluzionario”?) ma non riesce a fare a meno di ricorrere ancora una volta a distanza di pochi giorni allo schema della cultura del sospetto, adombrando un “clamoroso conflitto d’interessi” a carico di Baccei.

“Evito processi alle intenzioni anche se è fin troppo chiaro che torneremo alle opacità del passato, che ho denunciato sulle precedenti gestioni di Sicilia E-Servizi”, dice Ingroia. Dicendo di evitare processi forse perché già pronto a emanare sentenze senza perdere troppo tempo col processo stesso. Proprio come era accaduto con il dirigente regionale Pirillo, reo di aver mosso rilievi ai costi della società e attaccato dall’ex pm ancora una volta secondo il copione inquisitorio del sospetto (“giustificati sospetti”, testualmente) con un dire e non dire.

È così che la legittima e naturale dialettica politica svanisce, inghiottita dall’accusa all’avversario dipinto in maniera obliqua. Uno schema consunto, che per anni è stato il pilastro della retorica di ogni campione dell’antimafia di potere, e che oggi non solo risulta inefficace ma addirittura controproducente. Perché nella querelle in questione Ingroia ha anche degli argomenti oggettivi dalla sua, su cui si può concordare o dissentire ma ci sono, che però finiscono eclissati dalla polemica sugli interessi loschi di quello o sui propositi poco trasparenti di quell’altro. Accuse che si liquidano con un’alzata di spalle come ha fatto Baccei. È insomma il fallimento di uno schema retorico con radici antiche e con poco futuro. Quello stesso schema che si materializzò quando si accese lo scontro su Riscossione Sicilia, con le dichiarazioni di Antonio Fiumefreddo su “mascalzoni e pirati” a Sala d’Ercole, che finirono per buttare in caciara un dibattito, di certo scomodo per tutti i soggetti coinvolti (deputati inclusi, ovviamente), che meritava invece di avere luogo, ma in ben altro modo.

Ragionare sul modello di Regione per il quale si propende, più liberale o più socialista, è un diritto e forse un dovere della politica. Così come dibattere sul rapporto, inevitabile, con le lobby (“Nessuno può pensare che attraverso una norma si possano favorire lobbies e interessi privati”, diceva ieri Crocetta, forse a Ingroia stesso?), che fino al recente passato ha portato in Sicilia ad aberrazioni in tutti i campi immaginabili. Se qualcosa del genere si vuole fare, trasformare l’arena politica in un’ideale aula di tribunale – salvo che non si abbiano da fare precise e circostanziate denunce in procura, e questa è ovviamente un’altra storia – non aiuta. Chi s’è autoproclamato pubblica accusa in questo giochino dell’allegro magistrato dovrà prima o poi farsene una ragione.


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