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Il web dell’odio

Facebook non è solo un'innocua vetrina, ma un'arena virtuale dove scaricare ogni repressione.

Gonfia di odio. Così è la comunicazione sul web secondo il sociologo Giorgio Pacifici (Le maschere del male, Milano 2015). Una varia umanità, dannata e dannosa, scatena le proprie frustrazioni sul web, e si nasconde sotto il generico appellativo di haters.

Gli odiatori; detto in italiano, non appare più un vezzo da internauti. Odio è una parola pesante; ed è un fiume d’odio quello che quotidianamente intride la rete; volgarità gratuita, messaggi razzisti e sessisti, insulti, vengono lanciati nell’etere in modo pressoché impune, finché non si arrivi al reato ‘fisico’, come il pestaggio di adolescenti colpevoli d’aver pubblicato un post sgradito al branco, o a quando accada che le vittime di persecuzioni via internet non siano spinte al suicidio.

Il fenomeno è in crescita; nel 2013 l’OECSE registrava più di quattrocento ‘crimini d’odio’: per la prima volta, accadeva che i casi online superassero quelli della vita reale. Nel 2014 l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali rilevava espressioni razziste sui social, Facebook in particolare: ben settecento episodi di intolleranza. Nel recentissimo volume ‘Discorsi d’odio e social media’ curato da Carla Scaramella, che per l’Arci ha coordinato il progetto PRISM (Preventing, Inhibiting and Redressing Hate Speech in New Media), si fa adesso il punto non solo sulla diffusione online dei ‘discorsi d’odio’, ma anche su come influenzino in modo concreto la società contemporanea, per provare, infine, ad arginare il fenomeno.

Ma quali sono le parole dell’odio?

La retorica populista è dominante; bei lemmi antichi, come popolo, sovranità, italiani, patria, vengono stravolti nel loro contenuto per diventare vessilli branditi contro gli immigrati, altro termine usato di frequente in senso dispregiativo, proprio in una nazione dalla quale, nello scorso secolo, partirono a migliaia in cerca di fortuna. La rete facilita il connettersi fra gruppi di estremisti anche a livello internazionale e la proliferazione di forum saturi di messaggi negativi, che amplificano un dibattito pubblico sempre più carico di contenuti xenofobi e razzisti. Su social, blog e siti internet (come nella vita reale) si attaccano le minoranze con l’intento di azzerarle.

In buona sostanza, Facebook non è solo l’innocua, affettuosa vetrina della nostra pasta al forno del lunedì di Pasqua, o del selfie da discoteca, o, meglio ancora, dei nostri amatissimi amici a quattro zampe; non sono solo le foto dell’alba sullo Stretto o del primo bagno sulla spiaggia di Mondello a infiorarlo di immagini. La rete è l’arena virtuale ove scaricare ogni repressione come se si percepisse una garantita impunità: internauti inesorabilmente vocati a esprimere la propria opinione anche quando ha un contenuto patologico, hanno modo di dar corso ai propri istinti. E, fino a questo momento, ciò avviene senza che vi siano limiti.

Una ricerca promossa dalla COSPE nell’ambito del progetto europeo ‘Building Respect on the Internet by Combating hate speech’, sotto l’icastico titolo ‘L’odio non è un’opinione’, ha coinvolto testate come Il Post e l’Espresso, community managers, esperti di strategie dei social media, blogger, esponenti di associazioni e organismi pubblici di tutela, focalizzando l’attenzione sul lavoro del giornalista il quale, nell’era telematica, deve districarsi tra l’antica missione di informare il pubblico e le attuali problematiche che pone la gestione delle community. L’indagine si è quindi spostata nelle scuole, con lo scopo di prevenire i discorsi d’odio mediante corsi di formazione per gli insegnanti e la sensibilizzazione degli studenti. Si è rilevato un uso insufficiente degli strumenti di moderazione della violenza verbale da parte delle redazioni, perfino quando il linguaggio diviene pesante. La prassi è quella della rimozione del messaggio offensivo, ma manca quasi sempre l’intervento esplicito di un moderatore che riporti la discussione su toni accettabili o che richiami i lettori a un uso corretto dello spazio di commento.

Le norme fondamentali di rispetto degli altri vengono sistematicamente violate. Occorre una regolamentazione in grado di bloccare i commenti violenti in calce agli articoli dei giornali online, nei forum e, soprattutto, sui social network. Non si tratta di invocare forme più o meno velate di censura; ormai, come ha affermato il presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Giulietti, il dilagare del linguaggio dell’odio implica l’urgenza che il problema sia finalmente affrontato, con la cooperazione delle redazioni, ma anche dei proprietari e dei direttori di testate. Fermare i ‘discorsi d’odio’ è un dovere professionale e una battaglia civile nella quale chi fa informazione è coinvolto in prima persona, perché le pagine dei giornali nazionali e locali sui social network sono ormai delle vere e proprie piazze virtuali. Secondo le indicazioni del COSPE, giornalisti e redazioni dovrebbero assumersi la responsabilità di monitorare la qualità del dibattito online evitando una pericolosa deriva delle esternazioni.

Il tema della diffusione dei ‘discorsi d’odio’ in Italia è all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica da tempo, ma assume una rilevanza particolare in un momento storico nel quale l’informazione, più che placare, sembra fomentare il moltiplicarsi delle espressioni di incitamento all’odio razziale nei confronti di rifugiati, migranti e minoranze. Questo fenomeno, difficilmente monitorabile, apre il dibattito sui confini fra la libertà di espressione e le offese. I social media hanno un pregio indiscutibile: permettono un confronto diretto con chi produce le notizie, dando la libertà di commentare ogni argomento; tale facoltà, però, spesso si traduce in una violazione dei diritti degli altri, e consente la circolazione di commenti intrisi di violenza e discriminazione.

Qualche possibile risposta normativa? Già tre anni fa, il CODACONS segnalava l’urgenza di regolamentare quello che già era un caos tale da sfuggire al controllo dei gestori dei social network, i quali non esercitano la dovuta vigilanza. Si chiedeva una riforma volta a incrementare i poteri della Polizia Postale, permettendo interventi immediati per oscurare siti e profili pericolosi e individuare i responsabili, nascosti dietro l’anonimato garantito dal web; si auspicava altresì che l’Autorità per le Comunicazioni studiasse interventi e misure per migliorare la vigilanza da parte dei responsabili dei social network. L’istanza, sempre attuale, è che lo Stato si occupi, oltre che del cyber-crime, anche di questi comportamenti lesivi, ritenuti minori, a livello normativo. Le campagne di informazione non saranno mai abbastanza, ma non prescindono dalla necessità di rafforzare il quadro legislativo di riferimento e di offrire lo strumento della sanzione per i trasgressori.

E la risposta sociale?

Se è opportuno non rimanere passivi di fronte alle sopraffazioni, è parimenti necessario che, accanto alle istituzioni, ogni cittadino non sia uno spettatore passivo, ma consapevole attore del proprio tempo. Facebook ne offre gli strumenti, ma occorre una volontarietà per isolare chi offende o perseguita, o per segnalare contenuti inappropriati: specialmente nei giovanissimi va coltivato lo spirito critico. Per citare Chesterton, non insegniamo ai ragazzi che i mostri esistono, lo sanno già! Insegniamo loro che i mostri possono essere sconfitti.

Per un uso più etico e consapevole della rete è primario, come sempre, il ruolo della famiglia e della scuola. La cura dei minori è fondamentale. Si fanno male e fanno del male; che sia volontario o meno, malizioso o sconsiderato, è da valutare caso per caso, ma avviene. E avviene sempre più spesso, fino a conseguenze estreme, irreparabili. I ragazzini vivono eternamente connessi, lo vogliamo capire? Una volta bisognava dargli un’occhiata ai giardinetti, perché non si rompessero il collo. Oggi rischiano di romperselo molto più di frequente anche chiusi dentro casa, magari mentre pensiamo che stiano facendo i compiti o che dormano! Nel quadro di quella che sembra una strategia del caos anche nel mondo dell’affettività, ormai siamo ai bollettini di guerra; non è un caso se in un programma di varietà della televisione di Stato sia andato in onda l’accorato e angosciante monologo di Paola Cortellesi sul bullismo tra scolari, e se bullismo e omofobia nel mondo dei minori siano lo sfondo del film che Ivan Cotroneo ha tratto dal suo romanzo, ‘Un bacio’ (Bompiani, 2010), ispirato a una storia vera, l’omicidio di uno studente americano di quindici anni, ‘colpevole’ di corteggiare un compagno di classe. Se trionfa la violenza, le nuove tecnologie, più che di comunicazione, saranno di distruzione.

Su un altro versante, avviene costantemente che i più giovani, anche gli stessi persecutori, siano ignare vittime di plagio ideologico. Chi trascorre quotidianamente tante ore su Facebook è esposto in modo acritico alle influenze negative di post violenti, xenofobi, o irrispettosi dell’essenza e delle opinioni degli altri, veicolati come messaggi ‘normali’.

Lasciati da parte i massimi sistemi per sfiorare i livelli di vita quotidiana, mi è capitato di leggere su Facebook la condivisione da parte di una deliziosa dodicenne del post di un gruppo (che vanta 119.557 ‘mi piace’) che, più o meno letteralmente, suonava così: ‘cagna leva il like dal post del mio ragazzo’. Volgarità a parte (per le giovani generazioni è più difficile distinguere il linguaggio parlato da quello scritto, ma questa è un’altra storia, e richiede ulteriori analisi), come spesso accade, sotto la superficie dell’ennesimo motto di spirito, si celava un contenuto violento e sessista. Non commento mai i post dei piccoli, anche se mi faccio un dovere di avvertire, talora invano, i genitori se appena colgo un filo di pericolo; sotto forma di messaggio privato, le ho scritto: ‘Chiunque ha il diritto di mettere mi piace al post di un ragazzo, anche se è il tuo ragazzo. Non c’è niente di male. Se lui tiene a te, non basteranno mille like a distoglierlo. Se non ci tiene, non è con l’altra ragazza che devi far chiarezza, ma con lui. Quel post è brutto, ed è un modo di istigare l’aggressività fra donne anziché far crescere la solidarietà femminile’. Non ho avuto risposta. Ma, poco dopo, il post è stato rimosso, e ne ho provato una grande gioia. Piccole donne crescono, e non è sempre facile che possano farlo con serenità.

Riguardo ai minori, non c’è che una parola d’ordine: attenzione, attenzione e ancora attenzione. Ogni frase apparentemente banale può essere strumentale a forgiare una generazione che reagisca con le viscere anziché col cuore e col cervello, e a formare una giovane donna, o un giovane uomo, che sappia odiare anziché confrontarsi e capire. Il sano istinto ci deve guidare nel discostarci dal pericolo e nell’aborrire il male, proprio come fanno gli animali. Ma la ragione è privilegio umano. Formare generazioni di istintivi piuttosto che di razionali, di piccoli masanielli destinati alla sconfitta, carne da macello dei potenti della Terra, piuttosto che di figli di Voltaire, capaci di affinare le armi della logica, serve solo a chi comanda e vuole dominare senza più ostacoli.

E se il mito della ragione deve governare il consorzio umano, quello del confronto deve governare il consesso civile.

 

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