La mafia dei perdenti: i Bontate| Il boss che faceva volare gli asini - Live Sicilia

La mafia dei perdenti: i Bontate| Il boss che faceva volare gli asini

Il boss Stefano Bontate

I corleonesi 35 anni fa uccidevano Stefano Bontate. Storia del clan fra passato e presente.

PALERMO – Quella sera di 35 anni fa si voltò pagina. I corleonesi scatenarono la guerra. Il primo a cadere, il 23 aprile 1981, fu Stefano Bontate. Un commando inviato da Totò Riina lo affiancò in via Aloi, una stradina che dal rione Bonagia sale in direzione del Monte Grifone. Era a bordo della sua fiammante Giulietta 2000 sport. Pino Greco Scarpuzzedda non gli diede scampo. Per la prima volta a Palermo si ammazzava con mitragliatori da guerra, i kalashinkov. Anche quello fu un segnale.

Finiva l’era del principe di Villagrazia, figlio di don Paolino Bontate, il boss che vestiva in doppiopetto, frequentava i salotti buoni della città e controllava i traffici della Cosa nostra palermitana. Aveva fatto soldi a palate raffinando tonnellate di eroina spedite in America. Massacrato nel suo regno e nel giorno del suo compleanno.

Diciotto giorni dopo, toccò al suo alleato, Totuccio Inzerillo. La carneficina voluta dal capo dei capi era appena iniziata. Si sarebbe spinta fino all’impensabile, fino all’attacco frontale allo Stato, dall’omicidio di Rocco Chinnci alle stragi Falcone e Borsellino.

La demarcazione fra vincenti e perdenti si fece netta. E i Bontate avevano perso. Trentacinque anni dopo cosa rimane di una delle più importanti famiglie della mafia palermitana? Innanzitutto il rispetto per un padrino che non è mai stato dimenticato, nonostante il piombo. Salvatore Profeta, boss di Santa Maria di Gesù, tornato pochi mesi fa in cella dopo essere stato condannato ingiustamente per la strage di via D’Amelio, era fin troppo esplicito: “Se lui diceva… u scieccu vola… nuavutri ci calavamu a tiesta… Si vieru ca u scieccu vola”. Era potente Bontade, talmente potente che bastava che lo volesse e volavano pure gli asini. Ai suoi tempi le votazioni per il rinnovo delle cariche in Cosa nostra erano una farsa. “All’epoca si facevano mi pare… ogni cinque anni… ma sempre Stefano Bontade acchianava… ”. Bontade e non Bontate, la “d” messa per errore da un cancelliere ha dato vita al doppio cognome.

Al fratello Giovanni, l’avvocato, sarebbe servito, invece, l’appoggio di altri per prendersi il potere. E così finì per schierarsi dalla parte degli assassini del fratello, tradendo il suo stesso sangue. Almeno così disse Tommaso Buscetta. Durante il maxiprocesso Giovanni Bontate lesse un comunicato in cui tentò di allontanare da Cosa Nostra il sospetto di aver ordinato l’uccisione di Claudio Domino, un bambino di soli undici anni. Il comunicato fu un boomerang perché confermava indirettamente l’esistenza della organizzazione. Forse anche per questo i corleonesi decisero la sua eliminazione per mano del suo luogotenente Pietro Aglieri. Lo massacrarono insieme alla moglie Francesca Citarda nel settembre 1988.

Dopo il sangue, anni di silenzi. Un silenzio rotto, di tanto in tanto, dall’irrefrenabile voglia di antimafia che finì per travolgere due figlie di Giovanni. Una è la moglie di un dipendente di Sicilia e Servizi licenziato e reintegrato dal Tribunale; l’altra, finì alla ribalta della cronaca perché faceva parte di un’associazione, guidata da Padre Mario Golesano, il successore di padre Puglisi a Brancaccio, che aveva ottenuto un bene confiscato. Ai cronisti disse tranciante che i suoi genitori erano morti ammazzati quando lei era ancora una bambina e nella sua vita aveva sempre e solo seguito la bussola della legalità. Diverso il caso di Francesco Paolo, il figlio di Stefano, che si fece beccare per una brutta storia di droga. In carcere si è laureato in Agraria. Ha saldato il conto con la giustizia,

Chissà se la passione per questo genere di studi gli è venuta fra gli agrumeti di famiglia. Perché gli eredi dei Bontate hanno parecchie proprietà, terreni e immobili, a Santa Maria di Gesù e in altre zone della città. Beni, molti dei quali mai finti sotto sequestro. Ed è a pochi metri da uno di questi terreni che il cognome Bontate è stato di nuovo associato, seppure indirettamente, ad un fatto di sangue. In via Falsomiele, un mese e mezzo fa, è stato assassinato Vincenzo Bontà, genero di Giovanni Bontate perché ne ha sposato una delle figlie. Un amore andato oltre le verità giudiziarie. Perché il padre di Bontà è stato condannato per avere ucciso proprio il boss Giovanni Bontate. Nessuno, però, in famiglia ci ha mai creduto. Per il delitto di via Villagrazia, costato la vita anche ad un altro uomo, Giuseppe Vela, sono finiti in carcere due vicini di casa di Bontà. Una coppia di insospettabili coniugi. Geometra del comune lui, Carlo Gregoli, casalinga lei, Adele Velardo. Le tracce del Dna del marito sono state trovate in uno dei bossoli.

Perché tanta violenza? Screzi di vicinato che hanno scatenato la follia omicida? Per trovare una risposta magistrati e poliziotti sono tornati a scavare nelle viscere di Villagrazia. Sono state le cimici piazzate per un’altra inchiesta antimafia a svelare che i soldi del clan di Villagrazia sono ancora in circolazione. Sono serviti per comprare case, aprire attività commerciali e intestarle a insospettabili prestanome. E sono nati dissapori e contese. I carabinieri del Ros hanno aperto uno squarcio su una stagione ancora zeppa di segreti. Chissà, però, quanti resteranno tali per sempre. Seppelliti. Non è una metafora, ma la vera storia di una parte del tesoro di Stefano Bontade. Sotterrato in un agrumeto prima di essere ammazzato e, alla sua morte, razziato da altri.


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