"Io rovinato, lo dica davanti a Dio" | La babele del Borsellino quater - Live Sicilia

“Io rovinato, lo dica davanti a Dio” | La babele del Borsellino quater

Vincenzo Scarantino

Giornata drammatica al processo di Caltanissetta sulla strage di via D'Amelio. Parla il falso pentito Scarantino.

CALTANISSETTA – È il giorno della chiusura dell’istruttoria dibattimentale. Ed invece, poco prima che il presidente della Corte d’assise fissi le date della requisitoria del Borsellino Quater, un legale di parte civile prende la parola. Secondo l’avvocato Giuseppe Scozzola, che assiste uno degli ergastolani condannati per errore, non si può glissare sulle incongruenze dei racconti di due poliziotti. Farlo sarebbe “un’offesa all’intelligenza e allo sforzo di chi cerca la verità”. Bisogna metterli a confronto. La camera di consiglio per sciogliere la riserva è brevissima. Richiesta accolta. Il confronto si farà l’8 giugno prossimo.

È l’ultimo atto di una lunga giornata di udienza. I toni dei protagonisti raggiungono picchi di drammaticità. “Lo dica, sia uomo almeno per una volta. Lo dica davanti a Dio che ha rovinato la mia vita e quella di altre persone… perché devo stare solo io da questa parte a pagare”. Francesco Andriotta alza la voce nella saletta del carcere da cui è collegato in video conferenza. Il presidente Antonio Balsamo è costretto a richiamarlo. Le sue parole rimbombano nel bunker di Caltanissetta dove sul banco dei testimoni è seduto Mario Bo, uno dei poliziotti del gruppo Falcone e Borsellino che indagò sulla strage di via D’Amelio. È a lui che Andriotta si rivolge accorato.

I confronti mettono faccia a faccia i pentiti sbugiardati con gli agenti che li avrebbero costretti con le minacce e le violenze a inventarsi una falsa verità sull’eccidio di via D’Amelio. Da una parte Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino. Dall’altra Bo e Vincenzo Ricciardi, un altro poliziotto del gruppo allora guidata dal capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. I primi raccontano mille particolari di una stagione lontana. Il lungo tempo trascorso, però, non ne ha scalfito la memoria. I secondi, invece, alla dovizia di particolari rispondono trancianti: “Tutto falso”.

Inizia Scarantino. “Ho detto che della 126 non sapevo niente… mi hanno fatto vedere le foto e ho ricostruito l’officina come se la conoscessi”. Il riferimento è alla macchina usata per l’attentato che Scarantino disse di avere prelevato in un’officina palermitana. Anche questa era una balla colossale. Poi, parla delle “pause” durante gli interrogatori. Il verbale veniva sospeso, lui si alzava, usciva dalla saletta colloqui e veniva avvicinato e imbeccato dai poliziotti.

“Se parliamo di semplici necessità, tipo prendere un caffè può essere – replica Ricciardi -. Per fare aggiustamenti o comunicare qualcosa, lo escludo categoricamente”. Scarantino sorride e risponde con una battuta – “sembravo un malato di prostata” – per dare il senso di quanto ripetute fossero le pause. Quindi sbotta: “Hanno fatto abusi su di me. Oggi non hanno l’umiltà di chiedere scusa, non a me, alle famiglie delle vittime, a quelli che hanno arrestato. Io l’ho detto a Ricciardi che della strage non sapevo niente”. Ricorda bene il luogo dell’incontro, un lido di Jesolo. “Mai, mai incontrato”, taglia corto Ricciardi.

Il copione non cambia nel confronto fra Andriotta e Ricciardi. “L’ho visto la prima volta nel carcere di Busto Arstizio, nel 1993, tra giugno e agosto – racconta il primo -. Venne insieme ad Arnaldo La Barbera. Li incontrai nella stanza del comandante. Mi diede un buffetto e mi disse, ascolta il dottore La Barbera”. “Non l’ho mai incontrato. Non sono mai stato nel carcere di Busto Arstizio – replica Andriotta -. In quel periodo non facevo parte del gruppo Falcone e Borsellino. Non so neppure dove è ubicato il carcere”.

Stesso cliché quando Andriotta racconta che “ho conosciuto Bo nel carcere di Paliano. Veniva pure da solo per dei colloqui investigativi”. A Paliano, ma pure ad Aosta e Brescia. “Nessun colloquio investigativo con Andriotta”, risponde Bo.

Ognuno resta arroccato sulle proprie ricostruzioni. E non divergono – circostanza che non sorprende affatto – soltanto quelle rese da poliziotti e falsi pentiti. Anche gli agenti offrono racconti diversi sugli stessi episodi. Accade fra l’ex capo della squadra mobile di Imperia, Salvatore Coltraro, e il suo vice, Francesca Peppicelli. Non concordano sulle modalità di gestione della sicurezza di Scarantino, delegata ai poliziotti liguri, e neppure sulla presenza degli agenti palermitani nel paesino che ospitò il picciotto della Guadagna all’inizio della sua collaborazione.

La verità è che a giudicare dalla due giorni di confronti sono più i buchi neri che i punti fermi in un processo che sembra una babele. Nella difficile ricerca della verità, nel tentativo di capire se le bugie di Scarantino e Andriotta siano state, come loro stesso dicono, davvero pilotate a mazzate e minacce si è via via scoperto che una parte dell’attività investigativa – colloqui e sopralluoghi – non è stata neppure verbalizzata. Non c’è una nota ufficiale persino su quanto accaduto nell’appartamento che ospitava Scarantino e i suoi familiari. Il pentito sostiene di essere stato picchiato in quella casa da Mario Bo. Mario Bo sostiene, al contrario, di essere stato aggredito. Dell’aggressione, però, non c’è traccia in alcun verbale. Ecco che diventa difficile, se non impossibile contestare carte alla mano i tanti “non ricordo” uditi in aula. Il Borsellino quater è una babele. Bisogna costruire un’impalcatura processuale mettendo da parte le macerie dei vecchi processi, quelli basati sulle bugie di cui nessuno – pm e e giudici per primi – si erano accorti, ma anche cercando di scansare la spazzatura delle indagini fatte male.

Non può sorprendere allora che in un processo dove ci sono due imputati – Vittorio Tutino e Salvino Madonia – accusati di avere massacrato Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, per due giorni il dibattimento si sia incentrato, solo ed esclusivamente, sul meno grave reato di calunnia contestato a Scarantino, Andriotta e Calogero Pulci. È non è ancora finita.


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