"Non parliamo più d'antimafia |Facciamola", sostiene Fava - Live Sicilia

“Non parliamo più d’antimafia |Facciamola”, sostiene Fava

"In un tempo di antimafie suonate a trombetta vorrei che restasse traccia delle cose fatte".

L'intervento
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Cominciamo dalla parola: antimafia. Che ha fatto il suo tempo. La parola, non ciò che racconta. Ma dalle nostre parole dovremo pur partire se vogliamo riorganizzare scienza e coscienza, rivedere abitudini, suoni consumati, pratiche prevedibili, pensieri spuntati.

“Antimafia” non funziona più, s’è fatta rigida come un travestimento, prevedibile e vuota perché troppo piena di gingilli, medaglie, trofei, pennacchi, lacrime, esibizioni, urla, cartelli, cose belle e cose tinte. E quando la confusione si fa grande, bisogna riprendersi il senso delle parole rivoltandole come calzini. Per cui, poggiamolo da qualche parte questo verbo, affidiamogli qualche anno di quaresima, facciamo voto di non pronunciarlo, di non evocarlo, di non batterlo in cassa. Voi dite: come la chiamiamo allora l’antimafia? Non chiamiamola. Limitiamoci ai fatti, alle cose concrete, a quelle che fanno danno vero ai mafiosi perchè gli lasciano un livido di infamia sull’anima, gli tolgono il sonno e il sorriso, gli raccontano che alla fine della fiera sono tutti nuddu miscatu cu’nenti. Ecco, in un tempo di antimafie suonate a trombetta vorrei che restasse traccia non delle parole abusate ma delle cose fatte. Che sono tante.

Una, per dire: una villa che hanno tolto a certi califfi di Quindici, camorristi di antica razza che al paese loro si pensavano dio in terra. Gli hanno tolto il fortino di marmi e rubinetterie dorate e altre minchiate e l’hanno trasformato in un laboratorio tessile. Adesso fanno le divise dei carabinieri. Ci lavorano in venti, fino a ieri tutti disoccupati, adesso tutti occupati. Carusi di quel paese: hanno fatto un corso, hanno imparato a filare e ora fanno le giacche nere dei caramba. Si buscano il loro pane, senza elemosina. E a Quindici la camorra ha perso punti. La sera prima di inaugurare il laboratorio, hanno mandato uno di loro a sparare a pallettoni contro il cancello. Cose da poveracci, si vede che l’hanno presa male.

Esempio numero due. Antoci, parco dei Nebrodi. Le cose fatte: revisione delle concessioni fondiarie a un poco di aziende di amici degli amici che pagavano al parco pochi piccioli e incassavano centinaia di milioni dall’Unione Europea. Col prefetto di Messina ne hanno mandate fuori dai coglioni una quindicina e l’altra sera hanno tentato di ammazzarlo, lui e i poliziotti della scorta (per la cronaca, un attacco con armi da fuoco, e non con il tritolo, a una scorta non avveniva dal 16 marzo 1978, il rapimento di Aldo Moro).

Esempio numero tre… No, basta. Qui mi fermo. Insomma, il concetto è questo: possiamo raccontare quello che fa il signor Antoci e i ragazzi di Libera di Quindici senza dover declinare il verbo dell’antimafia? I fatti, le cose, i segni, le scelte. Stare da questa parte e non dall’altra. Scrivere invece di tacere. Dire invece di babbiare. Perché di fatti e non di pennacchi continuiamo ad aver bisogno come il pane.

E invece abbiamo visti sfilare troppi pennacchi. Esibiti come aureole nei giorni della festa, branditi come spade nei giorni degli affari. Usati per collocare famigli, per fabbricare carriere, per raccomandare, pretendere, estorcere, ammansire, giustificare. Non penso solo ai beati che si fanno ladri. Penso a chi ha lasciato che il tema dell’antimafia tracimasse nella volgarità, nell’esibizionismo, nella vanità. Ho sentito Crocetta urlare per anni ai suoi avversari politici che lui è un condannato a morte. Poi penso alla sobrietà di Paolo Borsellino che incontro alla morte sapeva davvero di andare e non si permise mai di agitare quel presentimento come il velo della sposa. Guardo le spacconate di Pino Maniaci che fa antimafia come si va al casino, chi ce l’ha più lungo, chi piscia più lontano, e penso alle decine di amici miei – vecchi e ragazzi – che per anni gli sono stati accanto, scudi umani contro ogni pensiero molesto, contro ogni ingiuria, ogni sospetto, per poi essere ripagati in questo modo.

Penso che di questa fioritura di pennacchi siamo un po’ tutti colpevoli. Per aver fatto sempre occhi dolci e lustri a chi s’era scritto antimafia sul biglietto da visita. Ci siamo accontentati dell’autocertificazione. E invece bisognava guardare in controluce certe parole e certe storie, misurarle con il peso delle cose fatte, non solo di quelle annunciate. Da oggi faremo così, a costo di apparire pedanti, tignosi, noiosi. Ma se qualcuno pensa di buttare a mare tutto, Antoci con Maniaci, i ragazzi di Quindici con i giovanotti della Confindustria, il signor Crocetta con il dottor Borsellino, sbaglia. Bisogna ricominciare a camminare a piedi, ma non per tornarcene tutti a casa.


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