Le stragi di mafia 24 anni dopo| Storia di un'ingiustizia di Stato - Live Sicilia

Le stragi di mafia 24 anni dopo| Storia di un’ingiustizia di Stato

La strage di Capaci

Errori dei giudici, ergastoli annullati, falsi pentiti e trattative: la verità su Falcone e Borsellino è lontana.

L'ANNIVERSARIO
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PALERMO – Per una volta si lasci in tasca il santino di Giovanni Falcone. O meglio, il santino di Giovanni, senza aggiungere neppure il cognome come fanno in molti per marcare la confidenzialità, vera o presunta, del loro rapporto con il magistrato ammazzato dalla mafia.

Oggi 23 maggio 2016, ventiquattro anni dopo le stragi, chiediamoci innanzitutto se sia stata onorata fino in fondo la memoria di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e delle altre vittime nell’unica maniera che conta, e cioè raggiungendo la verità.

Chiediamoci se giudici, pubblici ministeri e investigatori abbiano saputo dare giustizia ai “loro” morti. “Loro” perché solo dopo, ma non è stato né facile né scontato, Falcone e Borsellino sono diventati ‘patrimonio’ comune di dolore. ‘Patrimonio’ di tutti, anche di quelli che non indossano né una toga né una divisa.

Giustizia è stata fatta? Risposta complicata. A ventiquattro anni dalle bombe e dopo avere celebrato una dozzina di processi, siamo di fronte ad una verità giudiziaria parziale nel caso di Capaci, mentre per via D’Amelio il castello giudiziario è crollato sotto il peso delle menzogne dei pentiti Scarantino, Andriotta e Candura.

Per il massacro di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani ci sono trentasette colpevoli. Gli ergastoli sono ormai definitivi per mandanti ed esecutori materiali, tutti agli ordini di Totò Riina. Nel 2008, però, un altro pentito, Gaspare Spatuzza, ci ha spiegato che era saltato un tassello decisivo. Erano rimasti immuni dall’azione giudiziaria i Graviano di Brancaccio. Come se uno dei più potenti clan mafiosi di Palermo fosse rimasto a guardare mentre altri dichiaravano guerra allo Stato. Le indagini avviate dalla Procura di Caltanissetta sono sfociate in due nuovi processi.

Discorso diverso per la strage Borsellino dove morirono, oltre al giudice, gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Siamo giunti al processo quater. In mezzo ci sono indagini quanto meno sbagliate, ergastoli ingiusti, ritrattazioni e ritrattazioni delle ritrattazioni. Nelle scorse settimane vi abbiamo raccontato la triste pagina dei confronti voluti dalla Corte d’assise di Caltanissetta. Magistrati e investigatori convocati, faccia a faccia, con i finti pentiti. È stato il festival dei “non ricordo”. Ognuno è rimasto fermo sulle proprie posizioni. I pentiti a dirci che sono stati costretti con la violenza, fisica e psicologica, a raccontare una verità fasulla. E i poliziotti e i magistrati a difendere la loro onorabilità.

I confronti erano tanto dovuti, quanto scontati nel loro esito. Cos’altro ci si poteva attendere? La verità è che sono stati il triste epilogo del fallimento della giustizia, almeno di una fetta di essa. Un fallimento che poteva essere evitato. I campanelli d’allarme erano stati tanti. Suonarono quando Ilda Boccassini, allora pm a Caltanissetta, e Roberto Sajeva scrissero ai colleghi nisseni e palermitani che quella di Scarantino era “una pista pericolosa”; quando collaboratori di giustizia dall’attendibilità certificata come Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera, mafiosi veri prima di pentirsi, dicevano di non conoscere neppure il picciotto della Guadagna che mai e poi mai, vista la sua reputazione traballante, sarebbe stato ammesso alla riunione in cui si diede il via alle stragi; quando la moglie di Scarantino scrisse alle massime autorità dello Stato per dire che il marito era un visionario; quando gli avvocati degli imputati, condannati all’ergastolo e poi un ventennio dopo scagionati, dicevano che non c’era uno straccio di riscontro sulle dichiarazioni di Scarantino; quando lo stesso pentito disse che si era inventato tutto. La sua ritrattazione finì per essere spacciata come la prova delle prove: la mafia, colpita al cuore, tentava di zittire l’uomo che ne aveva svelato i segreti. Ventiquattro anni dopo si scopre che di quella stagione investigativa, già di per sé complicata, mancano verbali e atti di indagini. Non si trovano, o forse non sono mai stati redatti. Verbali di sopralluoghi e di confronti.

È giustizia, dunque, quella che abbiamo garantito ai nostri eroi Falcone e Borsellino? Oggi discutiamo di trattative, di mandati esterni, di sistemi criminali. Teniamo sotto processo per decenni persone che vengono infine assolte (non solo i mafiosi ma anche gente come Mario Mori e Calogero Mannino), pretendiamo di riscrivere la storia del nostro Paese nelle aule giudiziarie, celebriamo processi bis, ter e quater, processiamo gli investigatori e i politici, ma la magistratura, inquirente e requirente, che ha creduto in Scarantino e negli altri falsi pentiti, senza tentennamenti, è rimasta immune dal giudizio. Eppure, forse, tutto sarebbe stato più chiaro oggi se certe bugie fossero state smascherate allora, quando era possibile farlo. Fatta salva la buona fede di tutti e le oggettive difficoltà dei processi – saranno i magistrati a offrirci una eventuale chiave di lettura diversa – bisogna ammettere che anche lo Stato avrebbe meritato di essere processato. Non tanto per gli errori commessi – che potrebbero essere stati causati dalla volontà di trovare un colpevole al più presto – ma per il tempo che si è perso. Perché il tempo che scorre è nemico della verità.

 


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