Sentenza ribaltata in appello | Calanica condannata a risarcire - Live Sicilia

Sentenza ribaltata in appello | Calanica condannata a risarcire

L'Addaura Reef di Punta Priola a Palermo

Dopo l'assoluzione in primo grado la società proprietaria dell'Addaura Reef condannata a pagare.

Corte dei conti
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PALERMO – Sentenza ribaltata alla Corte dei Conti. L’Addaura Reef dovrà restituire 228 mila euro. A tanto ammontava il finanziamento regionale ottenuto dalla società Calanica di Daniele Di Gregoli e Corrado Caronna che allestirono lo stabilimento balneare e locale notturno a Punta Priola. In primo grado i magistrati contabili li avevano assolti. Ora arriva la condanna. E condannati lo sono stati pure nel processo penale dove è in corso l’appello. In sede penale per i due imputati aveva retto l’ipotesi di truffa, era caduto il reato di false fatturazioni ed era andato prescritto, invece, quello di abuso d’ufficio contestato in concorso con alcuni burocrati comunali. E arrivò una condanna ad un anno e mezzo ciascuno di carcere.

L’inchiesta partì da un esposto anonimo. Alla fine delle indagini, secondo la Procura, sarebbe emerso che il Comune assegnò alla Calanica la concessione dell’area demaniale senza gara pubblica. Inoltre, sempre secondo l’accusa, Di Gregoli e Caronna avrebbero usato per fini propri e non per la bonifica delle coste i 228 mila euro avuti dai fondi Por regionali.

Ed era proprio su questa seconda ipotesi che si incentrava il processo davanti alla Corte dei Conti. Il collegio presieduto da Luciana Savagnone motivò l’assoluzione scrivendo che “dalla documentazione non si rinvengono elementi atti a sostenere la responsabilità per danno erariale dei soggetti convenuti per sviamento delle risorse pubbliche dalle finalità dell’investimento programmato”. I giudici contabili aggiungevano che “lo scopo per il quale il finanziamento era stato concesso è stato conseguito, avendo la società Calanica provveduto a realizzare e mettere in funzione lo stabilimento balneare”.

Ora la sezione d’appello della Corte dei conti, presieduta da Giovanni Coppola, ribalta l’assoluzione e ritiene gli imputati colpevoli di avere provocato un danno erariale. In primo grado i giudici contabili avevano sostenuto che gli obblighi di “decementificazione e rinaturalizzazione della zona non facevano parte del progetto per cui è stata concessa la sovvenzione” e andava considerato che “la materiale attività di decementifazione non era comunque possibile essendo condizionata alla preliminare stesura di un apposito progetto da parte del Comune di Palermo, oggetto di successiva approvazione della Regione Siciliana”. Insomma, i lavori non furono fatti, ma non per colpa della Calanica.

In appello il giudizio è opposto, tanto che il collegio scrive: “Era del tutto esigibile da parte della società Calanica l’assolvimento dell’obbligo di decementificazione e rinaturalizzazione, quanto meno con la predisposizione di un apposito specifico progetto esecutivo (integrativo dell’originario) da sottoporre ad ulteriore approvazione da parte dell’Amministrazione regionale, attività che non fu mai posta in essere”. E ancora: “Sempre a tal proposito va sottolineato come il finanziamento regionale avesse, come pre-requisiti di attivazione, quelli della disponibilità dell’immobile, del vincolo di destinazione quinquennale dei beni acquisiti grazie al contributo e del completamento dell’opera entro i 24 mesi del decreto di concessione provvisoria. Ebbene, la disponibilità dell’immobile risulta intervenuta solo il 26 luglio 2006 (data di affidamento da parte del Comune del bene demaniale), cioè appena 14 giorni prima della data prevista per l’ultimazione del programma (i cui lavori erano, peraltro, iniziati già nell’aprile 2006, essendo il decreto di concessione provvisoria del 9 agosto 2006, con una tempistica, quindi, che evidenzia la natura fittizia dei tempi di realizzazione ufficialmente dichiarati”.

Ed infine, secondo i pm contabili, Di Gregoli e Caronna avevano completato alcune opere fuori dal termine previsto dal decreto di finanziamento. In particolare, la stesura del prato e l’installazione di due piscine che, però, furono ritardate da “esigenze di carattere climatico e dipendenti dalle caratteristiche tecniche dei luoghi” (così dissero i giudici di primo grado). Anche in questo caso in appello il giudizio va in direzione opposta: “L’omessa realizzazione nei termini delle opere previste (prato) e la difforme realizzazione di altre (piscina) riverbera sicuramente sul piano sostanziale in termini di danno patrimoniale, e ciò in quanto l’obbligazione di risultato non può dirsi regolarmente adempiuta da parte degli appellati. Se per quel che riguarda il prato la sua tardiva realizzazione determina, per clausola concessoria, la perdita del contributo connessa alla omessa conclusione nei termini dell’intero progetto, per le due piscine piccole non può certo sostenersi che siano equivalenti, per somma matematica, ad una piscina grande, poiché sotto il profilo sportivo determinate attività – perché quella doveva ritenersi la finalità pubblica dell’opera –necessitano di una piscina di grandi dimensioni che, nella fattispecie, non è stata realizzata e, quindi, l’interesse pubblico non può dirsi tutelato”.


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