Bagheria-Agrigento: asse di sangue| Il pentito svela un omicidio - Live Sicilia

Bagheria-Agrigento: asse di sangue| Il pentito svela un omicidio

Il pentito Pasquale Di Salvo

Il delitto fu commesso fra Alessandria Della Rocca e Bivona. Il commando parti da Palermo?

PALERMO - MAFIA
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2 min di lettura

PALERMO – Un intreccio di mistero e morte lega Bagheria alla provincia di Agrigento. Il pentito Pasquale Di Salvo svela i segreti di un omicidio di mafia avvenuto alla fine degli anni Novanta, fra Bivona e Alessandria Della Rocca. È lì che si consumò una sanguinosa guerra fra clan. Impossibile sapere a quale delitto si riferisca Di Salvo.

Sorprende il fatto, però, che un uomo di Bagheria possa essere informato su un delitto avvenuto lontano dal suo territorio. A meno che del commando di morte non faceva parte un palermitano, il cui ruolo era sconosciuto anche ai pentiti agrigentini. Ipotesi, solo ipotesi. Di certo il pentimento di Pasquale Di Salvo, che sembrava essere meno importante di altri, assume uno spessore diverso. Apre squarci inediti nell’alleanza fra i clan di province diverse.

È davvero singolare la parabola del neo collaboratore di giustizia. Era finito in manette nel blitz del dicembre scorso che decapitò i clan di Porta Nuova e Bagheria. Negli anni passati era stato allontanato dalla polizia.

A Bagheria Di Salvo avrebbe svolto il ruolo di soldato della famiglia diretta da Giampiero Pitarresi. Le cimici registrarono i suoi interessi nel settore dello smaltimento dei rifiuti, ma anche la sua paura per l’imminente arresto. Aveva infatti ricevuto la “soffiata” che lo stavano braccando e nel dicembre 2015 progettava di fuggire in Albania. Tutto inutile, i carabinieri del Nucleo investigativo lo arrestarono prima che lasciasse la Sicilia.

Di Salvo si muoveva aveva la benedizione dell’anziano capomafia Pino Scaduto. Che del neo pentito diceva: “Dignità ne ha trentatremila volte più di lui”, e cioè di qualcuno che a Di Salvo rimproverava il ‘peccato originale’ di avere indossato la divisa. Il nuovo collaboratore di giustizia era stato un poliziotto e aveva lavorato nella scorta di Giovanni Falcone. “Una disgrazia”, la definiva Scaduto durante un colloquio intercettato in carcere, ma “dopo se n’è accorto e si è spogliato… è onesto al cento per cento questo te lo posso dire io…”.

Di Salvo si era fatto ben volere. Era un semplice soldato, alle dipendenze del capo decina Carmelo D’Amico e del capo famiglia Nicolò Testa, ma con mansioni delicate, come le comunicazioni fra gli affiliati e le estorsioni ai danni dei commercianti. In cuor suo, e in gran segreto, il neo pentito sperava di fare il salto di qualità. Quando si sparse la notizia di una possibile scarcerazione di Scaduto era pronto ad affiancare il suo vecchio capo per mettere alla porta coloro che avevano gestito il territorio in maniera morbida. E così se da un lato la notizia del pentimento di Sollima, siamo nell’aprile del 2015, era stata accolta con paura per le possibili conseguenze; dall’altro, era stata vista come l’occasione per un repulisti generale.


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