E Di Matteo interrogò il teste |sulle minacce di Riina a Di Matteo - Live Sicilia

E Di Matteo interrogò il teste |sulle minacce di Riina a Di Matteo

Dal Foglio. Drammatica udienza al processo trattativa sui toni e sui gesti del boss corleonese.

A quale catalogo assegneremo quel ritaglio di udienza in cui il pubblico ministero Antonino Di Matteo interroga il teste non sui fatti e misfatti della fantomatica Trattativa ma sulle minacce che il boss Totò Riina ha rivolto dal carcere di Opera proprio a lui, all’odiatissimo “dottore Di Matteo”? Giudici e avvocati, i pochi che ancora frequentano l’aula bunker dell’Ucciardone, stentano a crederci. Dicono che, per una questione di fair play, l’incarico di formulare quelle domande poteva essere demandato a un altro dei pm presenti in aula. E dicono pure che, essendo Di Matteo il destinatario dell’intimidazione, sarebbe stato forse più opportuno lasciare ogni approfondimento alla procura di Caltanissetta, competente per legge su tutto ciò che direttamente o indirettamente riguarda i magistrati palermitani. Ma tant’è.

Il teste convocato l’altro ieri davanti alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto era Salvatore Bonferraro, il sostituto commissario di polizia incaricato nel novembre del 2013 di analizzare le parole e le immagini catturate dalle microspie durante l’ora d’aria che il sanguinario padrino dei corleonesi trascorreva in compagnia di Alberto Lorusso, un malacarne pugliese che le menti raffinatissime dei nostri “servizi” avevano appiccicato alle costole di Riina per stimolare la chiacchiera e carpire ogni segreto, ogni confidenza, ogni allusione; ogni bisbiglio utile insomma per intessere nuove e scintillanti indagini sui misteri mai esplorati dell’universo mafioso.

Ma il boss, quel giorno, di sicuro mangiò la foglia. E per non lasciare a bocca asciutta Lorusso, che nel gelido cortile di Opera lo seguiva come una improbabile dama di compagnia, cominciò a spiaccicare alcune sue verità. Tra queste, una fatwa – un terribile proposito di vendetta – nei confronti del sostituto procuratore palermitano: “E allora organizziamola ’sta cosa, facemola grossa e non ne parliamo più… perché tanto ’sto Di Matteo non se ne va… hanno chiesto di rafforzare la scorta…”.

Parole di fuoco. Che, ovviamente, hanno trasformato Di Matteo nel pubblico ministero più minacciato d’Italia. Al punto che lo Stato, doverosamente, gli ha assegnato la protezione più sofisticata, con apparecchiature in grado di segnalare, già a una distanza di sicurezza, la presenza di armi o di esplosivo.

Di quelle immagini e di quelle frasi canagliesche Di Matteo conosceva naturalmente ogni passaggio, ogni sfumatura, ogni pausa, ogni sottolineatura. E chissà quante volte ne avrà parlato con il sostituto commissario Bonferraro che, a sua volta, ha letto e riletto quei nastri millimetro dopo millimetro. Eppure l’altro ieri, davanti alla Corte d’assise chiamata a giudicare gli imputati della Trattativa, il pm ha voluto forzare la liturgia: ha chiesto cortesemente al collega Francesco Del Bene, che aveva fino a quel momento interrogato Bonferraro, di cedergli la parola e ha cominciato a sviscerare con il teste tutte le parole pronunciate da Riina nel momento in cui manifestava a Lorusso la necessità di organizzare al più presto un attentato – “facimola grossa” – per eliminare dalla faccia della terra l’irriducibile Di Matteo.

Da quell’ora d’aria nel carcere di Opera, a Milano, sono passati più di tre anni. Per fortuna il pm del processo sulla Trattativa è sano e salvo e fra pochi giorni il Consiglio superiore della magistratura valuterà la possibilità, molto concreta, di promuoverlo alla procura nazionale antimafia: i titoli non gli mancano, e non gli manca neppure la determinazione.

Resta tuttavia da capire il perché di questo suo improvviso e irrituale intervento in aula, di questo drammatico revival di una vicenda che, come si può facilmente intuire, deve averlo segnato particolarmente. La registrazione di ogni udienza che Radio Radicale offre al suo pubblico (qui l’audio dell’interrogatorio), rivela che Di Matteo non vuole più decifrare quella minaccia tra le quattro pareti di una conversazione privata con Bonferraro ma coram populo, in un’aula di giustizia; anzi, in quella stessa aula dove Giovanni Falcone trascinò in manette la cupola di Cosa nostra: da Luciano Liggio a Michele Greco, da Totò Riina a Leoluca Bagarella.

“Le devo chiedere solo di gesti e toni”, esordisce Di Matteo. E subito dopo specifica che il breve interrogatorio al quale intende sottoporre Bonferraro ha il solo obiettivo di conoscere le modulazioni di corpo e di voce con le quali Riina ha pronunciato la frase tremenda – “organizziamola ‘sta cosa… facemo una cosa grossa e non ne parliamo più…” – che a lui, pubblico ministero tra i più attivi sul fronte antimafia, ha di sicuro sconvolto la vita.

“Cosa ricorda di questa conversazione? Non le voglio suggerire…”. E il commissario Bonferraro prontamente risponde: “Ricordo bene che Riina, come al solito, in questa circostanza abbassava sempre il tono della voce. Ricordo che lui, siamo in inverno, c’è freddo, quindi ci aveva il cappotto, tira la mano dal cappotto e rotandola fa il classico gesto di affrettarci a fare questa cosa. Ricordo perfettamente che Lo Russo rimane colpito dall’incarico che gli viene dato da Riina, quindi si crea una pausa di diversi secondi, una pausa quantificabile in dieci o quindici secondi, e poi riprendono a parlare”.

Ecco, forse la verità che Di Matteo cercava sta tutta qui. Nel tono della voce che si abbassa e nel gesto della mano che segna la necessità di fare in fretta perché il tempo stringe. Nessuno ha mai messo in dubbio la ferocia nascosta tra le parole di Riina. Il pubblico ministero, con l’interrogatorio di Bonferraro, ha voluto probabilmente darne una rappresentazione teatrale, dove persino le pause assumono un significato lugubre e malaugurante.

Non solo. Quella mano che esce dalla tasca del cappotto e comincia a roteare attorno a un discorso ancora assetato di sangue può anche essere una prova. O quantomeno un indizio: se Riina mastica con tanta ossessione la sua voglia di vendetta nei confronti del pubblico ministero, questo è segno che le tesi dell’accusa hanno avuto comunque una loro ragion d’essere.

Di Matteo, che sin dall’inizio ha creduto all’impianto accusatorio lasciatogli in eredità dal suo amico e collega Antonio Ingroia, sa bene che il processo ha perduto potenza e credibilità: le rivelazioni che Massimo Ciancimino, con tanto scintillio di giornali e televisioni, aveva consegnato nelle mani dell’ex procuratore aggiunto si sono rivelate nient’altro che patacche; l’ex ministro Calogero Mannino, che a differenza degli altri dieci imputati ha scelto il rito abbreviato, è stato già assolto con formula piena; e lo stesso dicasi per l’ex generale dei carabinieri, Mario Mori, assolto in due diversi processi sia per la mancata perquisizione del covo di Riina sia per la mancata cattura di Bernando Provenzano, le due manchevolezze che avrebbero dovuto dimostrare la scellerata intesa sotterranea tra i rappresentanti dello Stato e l’ala stragista di Cosa nostra.

Un quadro disperato e disperante, a pensarci bene. Di fronte al quale Di Matteo, da magistrato tenace che fermamente crede in quello che fa, non intende rassegnarsi. E per dimostrarlo, ha offerto l’altro ieri alla Corte le stimmate della sua sofferenza e delle sue paure.

Un gesto gagliardo, non c’è che dire. In un processo, che ormai sprofonda nella noia e nell’inconcludenza, l’umana sregolatezza di un colpo di teatro era forse necessaria.

(riascolta qui l’audio dell’interrogatorio)


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