La 'bomba' al posto della fabbrica | Il cotone non lo fila più nessuno - Live Sicilia

La ‘bomba’ al posto della fabbrica | Il cotone non lo fila più nessuno

Era uno dei perni del sogno dell'industria caro a Mimì La Cavera. Cosa resta del vecchio cotonificio? FOTOGALLERY

Le case dei fantasmi
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Le “case dei fantasmi” sono stabilimenti industriali ai bordi delle strade e alle periferie delle città siciliane. Sorgono in mezzo al nulla o accanto a palazzi nuovissimi, circondate dal verde o ai margini di centri commerciali. Sono inserite nel paesaggio da talmente tanto tempo che ci siamo abituati alla loro presenza. Spesso sono abbandonate e ci chiediamo cosa siano state e quale sarà il loro destino, mentre a volte vivono ancora, ma nascondono storie del passato che aspettano di essere raccontate. Questa settima puntata è su un luogo in cui si filava il cotone, uno dei pezzi di uno sviluppo industriale mai partito davvero.

Dovrebbe esserci un lungo viale,le mappe lo segnalano. Alla fine di viale dell’Olimpo si apre via Aiace, una larga via asfaltata che dovrebbe costeggiare il fianco della montagna, ma imboccandola ci si trova davanti a un mucchio di terra e all’entrata di un supermercato. La strada non esiste se non sulla carta, e se ci fosse costeggerebbe le grandi cupole del Cotonificio Siciliano, gioiello dell’architettura industriale e uno dei pilastri dell’industria tessile di Palermo.

Il grande complesso oggi è nascosto tra i centri commerciali, un deposito dell’Amia e un concessionario d’auto che ne lambisce i confini e di fatto lo ha tagliato fuori dal mondo, ma una volta era il cuore produttivo della zona a nord di Palermo, cosparsa di fabbriche prima ancora che di quartieri e abitazioni. Era il perno di un’industria un tempo florida e ormai praticamente scomparsa, quella della coltivazione e lavorazione del cotone. Intorno alla metà del novecento, infatti, quasi 35 mila ettari di terreno siciliano erano adibiti alla coltivazione del cotone, con più della metà dei coltivatori nella piana di Gela. Nel momento di picco della produzione, i produttori di cotone siciliani esportavano verso Malta. Ovvio, quindi, che qualcuno cercasse di intercettare le coltivazioni e di renderle produttive in Sicilia.

Gli anni erano quelli del milazzismo, in cui si cercava di portare le industrie nell’isola per renderla autosufficiente, e a proporre un sua idea fu il principe degli imprenditori siciliani, quel Mimì La Cavera che aveva fondato Sicindustria negli anni quaranta e che poi sarà il protagonista dello sbarco di Fiat sulle coste di Termini Imerese. La Cavera aveva un’idea quasi religiosa dell’industria, non vedeva altro metodo per sviluppare la Sicilia e darle ricchezza e coesione sociale, e reagiva con insofferenza di fronte a chi sosteneva che si potesse vivere solo di agricoltura e turismo. Per questo una delle scommesse in cui si lanciò fu il Cotonificio Siciliano, che aprì i battenti nel 1952 come società a partecipazione mista pubblico – privata, uno dei tanti tentativi della Regione di diventare imprenditrice.

A lavorarci erano quasi trecento persone, tutte in maggior parte abitanti della borgata di Partanna Mondello. La struttura, progettata dall’architetto Pietro Ajroldi, riprendeva l’idea di un borgo, con un viale di accesso e le diverse strutture produttive. L’edificio della grande tessitura, costruito con un ingegnoso sistema di vetrate che faceva entrare per tutto il giorno la luce del sole lungo, permettendo agli operai di vedere il cielo e la montagna, valse al Cotonificio Siciliano una menzione da parte di Bruno Zevi, grande critico d’architettura, come “il miglior edificio industriale d’italia”.

L’industria siciliana del cotone, però, aveva già oltrepassato il suo picco, superata da fibre sintetiche e metodi di produzione più efficienti e al passo con i tempi. Dopo appena vent’anni il Cotonificio Siciliano venne chiuso e cessò la sua vita produttiva. Per i successivi trent’anni la sua proprietà rimase un mistero burocratico. Se lo stabilimento era silenzioso, però, non era inattivo. Al suo interno, infatti, covava una bomba ecologica, regalo degli anni cinquanta. Più di cinquemila metri quadrati di amianto erano installati nei tetti, che non ricevendo manutenzione rischiavano di disperdere la fibra ai quattro venti. Per liberare la borgata da questa miccia accesa si attivò l’associazione Aiace, nata per chiedere la conclusione dell’impossibile via di comunicazione interrotta. Il Cotonificio venne messo sotto sequestro nel 2014 e la bonifica iniziò due anni dopo, portando via, oltre alle migliaia di metri quadri di amianto, anche altri rifiuti.

La questione di cosa fare dell’impianto però è ancora aperta. In seguito a una delibera comunale del 2013, che prevede che alcune aree industriali dismesse da più di tre anni possono diventare zone per l’edilizia in convenzione, viene presentato da cinque cooperative un progetto per costruire 378 alloggi sul terreno del Cotonificio, oggi di proprietà della Regione. Il progetto prevede la demolizione dell’intero stabilimento, e ha suscitato diverse perplessità. L’associazione Aiace teme che il progetto si fermi unicamente alla costruzione di appartamenti, e chiede che il Cotonificio diventi il punto da cui partire per rilanciare la borgata, del tutto priva di zone ricreative. L’associazione ha presentato anche un proprio progetto: “Potrebbe diventare un mercato coperto – dice il presidente dell’associazione Edoardo Marchiano – per raccogliere gli artigiani e i commercianti della zona e qualche progetto di housing sociale. A patto, però, che si pensi a una strategia di sviluppo complessiva, che riguardi tutta la zona”.

 

 


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