Orazione per Falcone e Borsellino | Così Salvo Licata racconta Palermo - Live Sicilia

Orazione per Falcone e Borsellino | Così Salvo Licata racconta Palermo

L'opera del giornalista-scrittore verrà letta nel corso della serata di Rai 1, dedicata alle stragi.

L'anniversario
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Salvo Licata, da grande poeta, aveva capito tutto. Nella sua ‘Orazione per Falcone e Borsellino nel giorno di San Rocco’ raccontò il dolore, l’ipocrisia e la tragedia di un anno – il terribile ’92 – che avrebbe cambiato per sempre il corso della storia. Era una poesia a futura memoria, ancora oggi viva, un testo che si arricchisce sempre di elementi, di cose che accadono e che lo rendono – atrocemente, dolcemente – contemporaneo. Stasera – nel corso della diretta che Rai Uno dedica alle stragi, dalle 20.30, con la presenza di Fabio Fazio, Roberto Saviano e Pif – l’orazione verrà letta. Noi la riproponiamo qui per un anticipo di bellezza.

“Orazione per Falcone e Borsellino” è contenuta nel libro “La parola è un rasoio. Ballate d’amore civile” di Salvo Licata, il Palindromo 2016.

Chi ha brindato e chi no

Io, per me, per quello che sono,
nella mia pochezza, nella mia brevità, di me, immondo,
io non ho brindato. Non sono
di quelli che hanno brindato,
fatto risuonare infamie e bicchieri. Non è
gran merito, ma io non ho brindato,
questo voglio dire, ci tengo, sia chiaro.
Non ho brindato, né pubblicamente dissentito.
Vivo, diciamo, appartato.
La vita la seguo da un buco.

La pena ha trapassato… stavolta la pena ha trapassato
il buio dei cunicoli.

Non ho pianto, sapete?,
il classico nodo in gola, i classici
occhi sbarrati. Né pianto, né brindato.
Potevo fare quello che volevo: chi
mi vedeva? Eppure non ho brindato.
Non l’ho fatto il sabato, non la domenica,
né gli altri giorni scossi da lampi improvvisi…
Improvvisi, non direi proprio. Diciamo
attesi. Ammettiamolo: temuti. I giorni
dello strazio rovente, dentro di noi
inceneriti, ma sì!, i giorni della nostra viltà.
Non ho brindato, né dimostrato.
Dirò di più: non abbiamo brindato. Parlo
a nome dei miei, non una razza a parte,
tutt’altro che tribù. Siamo milioni
siamo i più. Un po’ difficile sterminarci, mi pare…

Abbiamo occhi piccoli
punte di spillo
ma vista acuta.
Noi, per nostra natura, andiamo
cautamente per vie interne. Guardiamo
dal basso in alto. Guardiamo dal nostro male.
Noi viviamo appartati, dico appartati,
eppure una volta bisogna mostrarsi,
possibile bersaglio a un tiro dalle cose…

 

Eravamo alle latrine,
sotto i letti dell’infermeria,
eravamo ai cameroncini,
alla nona, alla sesta – inquisiti,
eravamo ancora all’aria,
sotto un cielo di un grigio topo, e già!,
di un topo grigio, la testa
appena fuori dalla grata,
“grigio contro grigio”, e l’afa
di una primavera corrotta
che non prometteva riposo notturno.
Loro giocavano a batticarico,
gli occhi acquosi, le pance…
“Ma quali pance, se sono una silhouette?”
… le pance tese come tamburi:
questi non bevono più birra ghiacciata.

Onestamente non so se qualcosa
– Kristall, Veuve Clicquot –
avessero in freezer. Ma avrebbero
brindato certamente: “La mia è vostra!”.

Eravamo sulle grondaie
delle ville stese alle colline del mezzogiorno,
escrescenze di vetrocemento sui declivi,
prati rasati al di sopra
della linea dei vapori.
È gente questa che suole ricevere,
verande frequentate abitualmente
da cavalieri in alta uniforme della stirpe
che fa viadotti banche giornali,
e non ci sarà qualcosa in fresco?!

Correvamo tra i tavoli di ristoranti floreali,
quelle ventilate sedi estive,
per terrazze a picco sul mare putrido.
Ecco il gotha dei beneficiari
di sovvenzioni pubbliche: impeccabili
titolari di aziende agricole,
che si scambiavano previsioni sui prossimi mosti.
Riconoscibili, in fondo a destra, in fondo a sinistra,
nell’area della ritirata,
burocrati regionali e principi del Foro, intendo
avvocati di mafia, per carità!, viviamo
in uno stato di diritto!

Eravamo nelle intercapedini
tra grovigli
di cavi da computer
di certi giornali, redazioni tristi
come bar d’ospedali, dove si spacca
il pelo in quattro, e le notizie
le pubblicano gli altri…

Certi nostri parenti pratici di navi
sgattaiolarono sui primi yacht all’antimurale,
ed anche lì, è chiaro…
Viviamo appartati, si vede, ma una volta
è bene scendere in strada: l’azzardo, il gioco,
di essere trafitti, o semplicemente
schiacciati.

Qualcuno di noi, Pipirìto, mio fratello di latte,
riandava al tempo di Orano, quando
si saltava sullo scrittoio di monsieur Camus,
a gettare luce dagli occhi. Ma a me sembrò
una sofisticheria letteraria, almeno così,
sulle prime.
Anophèles, allora, mio primo cugino,
il cui nome era in effetti “Vicolo Scalilla”,
balzò, per fare smarro, alla cantina
di Auerbach in Lipsia, tra una brigata
di studenti in vena di baldoria, la sera
che vi giunsero il Docktor e Mefisto.
Culex pensò alla sete,
più modestamente direi, pensò alla sete.
Questo Culex è figlio di seconda tana di mia
madre,
la vecchia Carnaria.
Il mio fratellastro Culex pensò alla lunga sete
di una ignota prigione nell’abisso.
Aveva, disse, sogni agitati.
Si vedeva tra i blocchi di Auschwitz.
C’erano i rigurgiti di barbarie
iniettati con le siringhe infette.

Anche noi, perfino noi capimmo
che si voleva imporre il silenzio.
Ahi, certi menabò, si dolevano
Anophèles e Culex, dove si dà spazio
ai Giuda!

Uno scannatoio da basso impero,
la mano di certe testate
maestre nell’affogare i fatti…
Non abbiamo brindato, nessuno di noi ha brindato,
siamo rimasti fermi a pensare,
a non pensare.
Entravamo nei pensieri di altri,
compagni di pena, dico meglio: compagni
alla nostra pena. Nuotavamo nel fiume
della “terra desolata”.
Cercavamo… Arrampicati
agli scaffali, frugavamo tra i libri,
alla ricerca di parole.
Un dolore così acerbo reclama
dolori compagni: “Avete mai visto
un dolore alto come il mio?”.

Pipirìto lesse salmodiando:
“Nel caldo e nel silenzio, per il cuore atterrito
dei nostri concittadini… Ciascuno capiva
con spavento che i calori avrebbero
favorito il contagio e, nello stesso tempo,
ciascuno avvertiva che l’estate si stava affermando.
Il grido dei rondoni diventava più flebile
sopra la città;
non era più commisurato a quei crepuscoli di
giugno
che allontanano l’orizzonte nel nostro paese.
I fiori sui mercati non arrivavano più in boccio,
erano ormai aperti…”.

Attaccò Anophèles con voce rotta:
“Siamo scesi in una camera, vasta e nuda…
Che sete abbiamo! Il debole fruscìo dell’acqua
nei radiatori
ci rende feroci. Sono quattro giorni che non beviamo!
C’è un rubinetto, e, sopra, un cartello: “Acqua
inquinata”.
Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello
è una beffa,
“essi” sanno che noi moriamo di sete,
e ci mettono in una camera,
e c’è un rubinetto, e Wasserdrinken verboten.
Io bevo, e incito i compagni a farlo.
Ma devo sputare. L’acqua è tiepida e dolciastra
ha odore di palude…”.

Lo sopravanzò Culex, furente, amaro:
“Io affronto una storia densa di vicende,
terribile per battaglie, torbida di sedizioni,
tragica anche nelle pace…
L’Italia funestata da disastri non mai veduti
o riapparsi dopo
lungo corso di secoli:
città inghiottite o sepolte
lungo le ubertose coste della Campania,
Roma devastata da incendi, crollati
gli antichissimi templi… disseminati
nei mari gli esuli… cruenti di eccidi gli scogli…
inevitabile premio alla virtù, la morte”.

“Tu hai cambiato la pietra in torrente…”,
io stesso provai coi salmi
pregati da Agostino sul letto di morte,
ma Culex volle andare in fondo alla sua pagina:
“Abominevole quanto il delitto
la ricompensa ai delatori: gli uni
arraffavano, quale bottino, sacerdozi e consolati;
gli altri, il governo di province e comandi all’interno,
tutto sovvertendo per odio e per paura…
Chi non aveva nemici,
veniva calpestato dagli amici…”.

Tornò Anophèles, che s’era ripreso ed ora
scandiva fermamente:
“Questo è l’inferno. Oggi l’inferno
dev’essere così: una camera grande e vuota,
e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto
che gocciola,
e l’acqua non si può bere,
e noi aspettiamo qualcosa.
Non si può più pensare, è come essere
già morti…
Il tempo passa goccia a goccia…”.

Fu la mia volta: “Il fiume…
il fiume non porta bottiglie vuote, carte da
sandwich,
fazzoletti di carta, scatole di cartone, cicche di
sigarette,
o altre testimonianze di notti estive. Le ninfe sono
partite.
E i loro amici, gli sfaccendati eredi di direttori
della City,
non hanno lasciato l’indirizzo…
…Presso le acque del Lemano mi sedetti e
piansi…
ma alle mie spalle in una fredda folata sento
lo scrocchiare delle ossa e un ghigno teso
tra orecchio e orecchio.
…Un topo strisciò molle tra la vegetazione
strascinando il ventre melmoso sulla sponda…”.

Il mio fratello di latte Pipirìto,
il fratellastro Culex e il cugino Anophèles
si guardano e mi guardano e hanno il cuore
praticamente fracassato.
Quello che succede ha nome e cognome
e impone una costernazione ragionata,
un preciso dolore.
Non diremo città ferita, nostro amore,
“arpione nella nostra carne”.
Non chiameremo i lenzuoli il tuo sudario.
Né pianto, né strepiti.

Quando l’aria si fa nera failla,
meteora miserabile di timer,
e il tritolo di cava imita il tuono,
e i corpi e le macchine si spezzano,
e il fumo delle lamiere è rantolo,
allora – dice Anophèles – è tutto più sgamato,
perché il rumore buca la riservatezza.
Corrono nomi sulla bocca di tutti,
nomi consueti e nefandi.
“Sfidano Dio fuori dal cielo?”
– si chiede Culex –
“saranno demoni fiammeggianti?”.
“Non diciamo parole grosse”
– gli fa Anophèles –
“è solo un nodo di omissis…”.

Qui Pipirìto volle dire definitivamente la sua
e riprese dal punto: “Si vedeva chiaramente che
la primavera si era estenuata… Il sole incessante,
le ore
dedicate al sonno delle vacanze, non invitavano
più alle feste
dell’acqua e della carne.
Il sole della peste stingeva tutti i colori”.

– Hai detto “peste”?!

– Ho detto dell’afa che scioglie la terza pista,
la famosa terza pista…
Punta Raisi-Palermo, siepi bruciate,
violenza della luce,
cecità. Ma le concessionarie
turbo-climatizzate-antiscirocco
fanno affari d’oro. Questo è vita,
mica le chiacchiere!
Palermo ha le sue banche piene e il commercio
si muove.
Per il resto, liberi di morire. Non c’è
tempo per altro. Volo eroina cocaina:
imbarco immediato!

– Certo, è peste, ne convengo. Ma
che non la gettino sui topi!

All’unisono, nella notte, nelle piaghe dell’incandescenza,
considerati il luogo e il giorno
ed i tratti del suo bel volto
e il bastone per farsi strada
ed i piedi per arrancare,
una giaculatoria intonammo a San Rocco,
al fraterno padrone di casa:

“Santo Rocco peregrinante
degli umani e delle piante
della visina e del liofante
della peste lenimento
muovi il passo ed il sembiante
come un giorno ad Acquapendente
alle nostre terre brucianti
alle nostre terre dolenti!
E cu Gesù e cu Maria
questa vampa portati via!”.

E Anophèles, per sfottò: “Oh il pancione, la
zucca pelata!
Il malanno lo fa dolce e cedevole,
tanto che vede nel ratto il suo stesso ritratto!”.

Urlano i muri, urlano i lenzuoli:
“Sacrificarono la vita a un paese
accaparrato dagli amici dei loro nemici”.
“Conclusero l’ordinanza del Maxi
nascosti in un’isola come latitanti”.
“Furono soldati che andarono contro il nemico
mentre dalle loro file gli sparavano alle spalle”.

Urlano i muri, urlano i lenzuoli:
“Da ultimo il Potere tentò di ingabbiarli.
Ma il Potere ha già i suoi giudici,
quelli che chiudono un occhio,
quelli che insabbiano,
quelli che annullano”.

Urlano i muri, urlano i lenzuoli:
“Se un giorno svegliandoti
non vedi il sole,
è che hanno ucciso il sole,
o eri tu il sole”.

Urlano i muri, urlano i lenzuoli:
“Falcone vive, Falcone è in noi”.
“Meglio un giorno da Borsellino
che cent’anni da Ciancimino”.

Noi guardiamo e sentiamo
di più non possiamo.
Per conto nostro, di noi, immondi siamo.
Un corpo tozzo abbiamo.
Di pelo ruvido ci copriamo.
Coda grossa agitiamo.
Feci ovali cachiamo.
Forti nuotatori anche tra liquami.
Modesti arrampicatori, lo ammettiamo.
Al duro inverno resistiamo.
Sono Norvegigus, anzi “Raffello”, ossia Garraffello,
ratto di chiavica, topo di fogna.
E non ho brindato.

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