L'omicidio del boss Dainotti | La mafia, i silenzi e le catacombe - Live Sicilia

L’omicidio del boss Dainotti | La mafia, i silenzi e le catacombe

L'omicidio di Giuseppe Dainotti

Viaggio nel quartiere palermitano della Zisa cinque giorni dopo l'agguato dei killer.

PALERMO – Le otto del mattino di un giorno qualunque, ma non in una strada qualunque. In via D’Ossuna, rione Zisa, lunedì scorso hanno ammazzato Giuseppe Dainotti, un vecchio boss che forse ha toccato i fili del potere e ha ricevuto una scarica di piombo.

Nessuno, al momento, ha visto qualcuno, né sentito qualcosa. Per la verità neppure il più ottimista fra gli investigatori si attendeva che dalle tante testimonianze raccolte arrivasse la dritta giusta sull’omicidio. Lo sapevano pure i killer che le cose sarebbero andate così. E hanno deciso di uccidere Dainotti alle 8 del mattino in una strada che a quell’ora è già sveglia.

Via D’Ossuna è una via stretta, senza negozi, con le palazzine abitate già nei corpi bassi. Solo le tapparella delle persiane separano l’asfalto dalla camera da letto. Basta percorrerne una manciata di metri per ritrovarsi nel trafficato corso Alberto Amedeo che conduce a piazza Indipendenza. Oppure, in direzione opposta, in piazza Ingastone, dove le saracinesche delle botteghe vengono alzate al mattino presto. Ai lati della chiesa della Madonna di Lourdes ci sono macellerie, salumerie, fruttivendoli, market, trattorie.

Alle 8 in via D’Ossuna transitano una, due, tre macchine. E così via. Scooter e gente a piedi. Possibile che la mattina del 22 maggio dormissero tutti? “Dormivo, non ho sentito nulla”, è infatti la frase che si sono sentiti ripetere gli investigatori. Un silenzio che non sorprende. Potrebbe sorprendere che qualcuno abbia deciso di ammazzare un uomo in pieno giorno. Potrebbe, appunto. Il condizionale rimanda alla certezza da parte di chi ha premuto il grilletto che il quartiere si sarebbe chiuso a riccio. Per paura, per convenienza, perché si conosce la matrice del delitto o, più, semplicemente perché è meglio farsi i fatti propri. Né con i mafiosi, né con i poliziotti.

In passato è già accaduto che i boss contassero sulla riservatezza del quartiere, uno dei mercati della spaccio di droga più attivi della città. Ad esempio quando il 6 dicembre 2010 si diedero appuntamento i pezzi grossi della mafia di allora. C’erano, tra gli altri, Michele Armanno, uomo forte a Pagliarelli, e il suo braccio destro Maurizio Lareddola, Paolo Suleman, reggente della famiglia di corso Calatafimi. E c’erano Tommaso Di Giovanni e Nicola Milano, che in quel periodo reggevano in coabitazione il mandamento di Porta Nuova e che oggi sono entrambi nella lista degli scarcerati eccellenti. Una lista che fino a lunedì scorso conteneva pure il nome di Giuseppe Dainotti.

Eccellenti e, inevitabilmente, monitorati dalle forze dell’ordine. Un monitoraggio che non poteva certo evitare l’omicidio, ma che forse può servire a carabinieri e poliziotti per mettere i tasselli del delitto di via D’Ossuna uno accanto all’altro. Non è detto che basti perché un’accusa di omicidio è roba forte e granitiche devono essere le prove. Lo dimostrano i delitti di mafia recenti e finora irrisolti: Giuseppe Calascibetta, Francesco Nangano e Giuseppe Di Giacomo. Già, Di Giacomo, pure lui ucciso alla Zisa. Di sera, ma alle 19 e in via Eugenio L’Emiro, una strada più grande e mille volte più movimentata di via D’Ossuna dove si deve scavare più a fondo per trovare la verità. Proprio come si scavò un tempo per scoprire che nelle viscere di quel pezzo di città c’era la catacomba paleocristiana, che oggi si può anche visitare, di Porta d’Ossuna, denominata così dal nome del viceré Pedro Giron, duca di d’Osuna che la fece aprire nel 1613, sotto la dominazione spagnola della città. 

 

  

 


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