Guerra di mafia nell'Agrigentino | Il pentito ricostruisce un omicidio - Live Sicilia

Guerra di mafia nell’Agrigentino | Il pentito ricostruisce un omicidio

A parlare è il collaboratore di Bagheria, Pasquale Di Salvo.

Le rivelazioni
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AGRIGENTO – Arriva un collaboratore di giustizia a squarciare i misteri di una lunga stagione di morte in provincia di Agrigento. Pasquale Di Salvo, pentito del clan di Bagheria; e con contatti in altre province siciliane, svela uno dei delitti che, tra il 1978 e il 1997, insanguinarono Cianciana, Alessandria della Rocca, Santo Stefano di Quisquina e Bivona.

Dopo mesi di stretto riserbo trapela, infatti, che il collaboratore sta ricostruendo le fasi dell’agguato costato la vita a Vincenzo Antonio Di Girgenti. Era il titolare di una piccola azienda agricola di Alessandria della Rocca e fu in via Dante, una delle strade principali della cittadina agrigentina, che i killer lo attesero. Lo crivellarono a colpi di fucile mentre stava salendo in macchina. Nessun dubbio sulla matrice mafiosa dell’agguato.

In quegli anni morivano in una macabra sequenza Pietro Longo, Calogero Cinà, Tommaso Coniglio, Vincenzo Montalbano, Pietro Sicardi, Francesco Paolo Picarella, Paolo Calandrino, Giuseppe Patrinostro, Diego Passafiume, Ignazio Panepinto, Calogero Panepinto, Francesco Maniscalco, Emanuele Seidita, Giovanni Carbone, Angelo Mario piazza, Antonino Russo.

Molti omicidi non sono stati ancora risolti anche se sono emersi collegamenti fra di essi. Alcuni erano certamente legati ai contrasti per la gestione delle risorse idriche della diga Castello.

Un intreccio di mistero e morte lega Bagheria alla provincia di AgrigentoSorprende il fatto, però, che un uomo di Bagheria possa essere informato su un delitto avvenuto lontano dal suo territorio. A meno che del commando di morte non facesse parte un palermitano, il cui ruolo era sconosciuto anche ai pentiti agrigentini. Ipotesi, solo ipotesi. Di certo il pentimento di Pasquale Di Salvo, che sembrava essere meno importante di altri, assume uno spessore diverso. Apre squarci inediti nell’alleanza fra i clan di province diverse.

A Bagheria Di Salvo avrebbe svolto il ruolo di soldato della famiglia diretta da Giampiero Pitarresi. Le cimici registrarono i suoi interessi nel settore dello smaltimento dei rifiuti, ma anche la sua paura per l’imminente arresto. Aveva infatti ricevuto la “soffiata” che lo stavano braccando e nel dicembre 2015 progettava di fuggire in Albania. Tutto inutile, i carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale di Palermo lo arrestarono prima che lasciasse la Sicilia.

Di Salvo si muoveva aveva la benedizione dell’anziano capomafia Pino Scaduto. Che del neo pentito diceva: “Dignità ne ha trentatremila volte più di lui”, e cioè di qualcuno che a Di Salvo rimproverava il “peccato originale” di avere indossato la divisa. Il nuovo collaboratore di giustizia era stato un poliziotto e aveva lavorato nella scorta di Giovanni Falcone. “Una disgrazia”, la definiva Scaduto durante un colloquio intercettato in carcere, ma “dopo se n’è accorto e si è spogliato… è onesto al cento per cento questo te lo posso dire io…”.

Di Salvo si era fatto ben volere. Era un semplice soldato, alle dipendenze del capo decina Carmelo D’Amico e del capo famiglia Nicolò Testa, ma con mansioni delicate, come le comunicazioni fra gli affiliati e le estorsioni ai danni dei commercianti. In cuor suo, e in gran segreto, il neo pentito sperava di fare il salto di qualità. Quando si sparse la notizia di una possibile scarcerazione di Scaduto era pronto ad affiancare il suo vecchio capo per mettere alla porta coloro che avevano gestito il territorio in maniera morbida.

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