C’è un male oscuro tra i carabinieri | Perché scricchiola il mito dell’Arma - Live Sicilia

C’è un male oscuro tra i carabinieri | Perché scricchiola il mito dell’Arma

Dai disastri dell’inchiesta Consip alla guerra di Palermo scatenata dal processo sulla Trattativa

Ma da dove viene il male oscuro che ormai da alcuni anni affligge la gloriosa Arma dei carabinieri? Fino all’altro ieri potevamo incantarci tutti, grandi e bambini, davanti alle divise d’alta uniforme, davanti ai pennacchi e ai cappelli a punta, davanti alla fanfara della cavalleria e ai calendari illustrati. E potevamo rassicurarci tutti, grandi e piccini, nel leggere i motti che campeggiano sui muri delle caserme: “Nei secoli fedeli”, “Usi a ubbidir tacendo e tacendo morir”. Parole scritte con un eroico senso del dovere e, spesso, anche con il sangue. Ma ora? Resta ancora integra l’immagine del carabiniere che non conosce altra strada se non quella della legge e delle istituzioni, oppure dobbiamo già mettere nel conto che anche i “militi dell’Arma” – si chiamavano così nel tempo andato – possono cedere alle lusinghe del potere, fino a immischiarsi nelle guerre sotterranee che attraversano non solo i palazzi della politica ma anche i palazzi di giustizia?

Le notizie di questi ultimi giorni sono state impietose. L’inchiesta di Napoli sugli appalti della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione, sarebbe stata manipolata al punto che il gip di Roma, intervenuto in seconda battuta per districare la matassa della fuga di notizie, ha deciso di sospendere per un anno dal servizio sia il maggiore dei carabinieri Gianpaolo Scafarto sia il colonnello Alessandro Sessa, suo diretto superiore. I due, nel corso dell’inchiesta che avrebbe dovuto investire in pieno Tiziano Renzi, padre dell’ex premier, avrebbero distrutto alcuni messaggi Whatsapp attraverso i quali sarebbe stato possibile individuare ogni precisa responsabilità. Da qui l’urgenza, secondo il gip Gaspare Sturzo, della misura interdittiva.

Per i carabinieri – non dimentichiamo che l’inchiesta coinvolge anche, come presunti destinatari della fuga di notizie il comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette e il generale di brigata Emanuele Saltalamacchia, che a loro volta, secondo l’accusa, avrebbero confidato i dettagli al ministro Luca Lotti, vicinissimo a Matteo Renzi – la sospensione dei due ufficiali di polizia giudiziaria somiglia tanto a un vero e proprio disastro. Il granitico monumento che la storia ha costruito attorno al loro mito ne esce a pezzi e sarà certamente difficile rimarginare la ferita che le manipolazioni giudiziarie, avvenute dentro il palazzo di giustizia di Napoli, hanno procurato non solo a Scafarto e a Sessa ma alla divisa di tutti i carabinieri d’Italia, in particolare a quelle stellette argentate che fino a poco tempo fa chiunque esibiva come esempio di legalità, di lucentezza e di rigore.

Ci si chiederà, a questo punto: ma che interesse avevano i due ufficiali del Nucleo operativo ecologico a infilarsi mani e piedi in una manipolazione dalla quale sarebbero usciti quasi certamente con le ossa rotte? L’inchiesta di Napoli, avviata e coordinata dal sostituto procuratore Henry John Woodcock, nasce stregata. Da un lato c’è il magistrato che crede fermamente di avere individuato un filone di corruzione talmente fertile, dal punto di vista giudiziario, da portarlo probabilmente nelle stanze più alte di Palazzo Chigi. Dall’altro lato c’è il maggiore Scafarto che, incaricato di raccogliere indizi e prove per una inchiesta così ambiziosa, decide di mettere a disposizione di Woodcock non solo la sua esperienza di investigatore navigato ma anche il suo zelo. Uno zelo eccessivo, evidentemente. E la controprova sta nel fatto che, nella foga di riascoltare e trascrivere il mare magno delle intercettazioni, tutte autorizzate dal magistrato, Scafarto finisce per attribuire all’imprenditore Alfredo Romeo, presunto beneficiario dello scandalo, una frase – “Ho incontrato Renzi” – che invece era stata pronunciata da Italo Bocchino, un ex deputato assunto da Romeo come uomo delle pubbliche relazioni nel rasposo far west della politica romana.

Un errore non da poco. Secondo la versione di Scafarto quella frase era la prova che un contatto tra il corruttore Romeo e il corrotto Tiziano Renzi c’era comunque stato. Nella versione originale invece quella frase non significava nulla perché Bocchino, da uomo politico, poteva avere incontrato Renzi, il figlio, in qualsiasi momento e per i più svariati motivi.

Della falsa trascrizione di Scafarto si è già parlato tanto. E tanto se ne parlerà ancora, soprattutto al Consiglio superiore della magistratura, chiamato dal procuratore generale della Cassazione a giudicare alcuni comportamenti, a suo giudizio anomali, tenuti dal pm Woodcock nel corso di un’inchiesta dai molti punti oscuri e controversi. Ma qui nessuno vuole aggiungere legna al fuoco che è già divampato per conto suo; e nessuno può legittimamente pretendere di stabilire se il verso strambo all’indagine di Napoli sia stato impresso dal magistrato che la coordinava o dall’ufficiale di polizia giudiziaria che, volontariamente o involontariamente, si è lasciato prendere la mano fino a mettere su carta una prova che non esisteva. Qui si può affermare solo un principio: che il male oscuro dei carabinieri (certamente non varrà per Napoli) nasce e si alimenta soprattutto dentro quei palazzi di giustizia dove trovano spazio le inchieste più slabbrate, dove si affermano e si fortificano i teoremi, dove alla cultura della prova si sovrappone la cultura del sospetto e dove il magistrato non è visto come il funzionario della Stato il cui unico dovere è applicare la legge, ma come il Cavaliere senza macchia in lotta contro i poteri forti o contro i poteri occulti. Perché, a quel punto, quale capitano o quale colonnello avrà mai la forza di sottrarsi alla missione salvifica che il magistrato ha avviato con questa o quell’inchiesta? Quale capitano o colonnello si assumerà la responsabilità di spegnere la spada di fuoco con la quale il pm di prima fila ha pensato di colpire questo o quell’altro indagato eccellente?

Se questo è il quadro di riferimento, figurarsi che cosa non è successo a Palermo dove i pm eroici e straordinari sono stati tali e tanti da perdere obiettivamente il conto. Prendiamo il processo che più di ogni altro simboleggia non la giustizia, ma la lotta del bene contro il male: quello sulla Trattativa tra la mafia e alcuni pezzi deviati dello Stato. E’ un processo che stimati studiosi del diritto penale hanno definito una “boiata pazzesca” sia perché privo di movente (i boss che avrebbero trattato con quegli spregiudicati investigatori sono tutti sepolti nel carcere duro) sia perché intessuto attorno alle fandonie di un pataccaro che risponde al nome di Massimo Ciancimino, plurinquisito e processato per calunnia. Eppure, nonostante questi dettagli non secondari, l’inchiesta sulla Trattativa è diventata, stando alla montatura mediatica che ne è seguita, la punta di diamante con la quale la ristretta pattuglia dei magistrati coraggiosi potrà rivelare tutto il marcio che negli ultimi trent’anni si sarebbe accumulato nei sotterranei di questa marcia Repubblica: trame oscure, regie occulte, complicità indicibili, compromissioni inquinate e inquinanti. Come avrebbe potuto un ufficiale dell’Arma, “nei secoli fedele”, disertare la battaglia del secolo contro la corruzione dell’intero sistema? Quale ufficiale avrebbe mai avuto il coraggio di rifiutare l’arruolamento in una crociata che, a sentire i condottieri, aveva e ha come obiettivo quello di scoperchiare tutti i santuari del malaffare? Quale capitano o quale colonnello avrebbe potuto mai negare la propria collaborazione ai Santissimi Togati che dicevano e dicono di volere distruggere tutti i reliquiari delle nefandezze accumulate da uno Stato talmente in combutta con i boss da essere definito addirittura come Stato-mafia, con il trattino piccolo piccolo?

A giudicare dai risultati l’atto di fede di molti ufficiali dell’Arma in questo stranissimo Mysterium iniquitatis c’è stato, eccome. Al punto che la consacrazione ha scatenato una guerra di religione: da un lato gli ufficiali fedeli alla teologia del male disegnata dai pubblici ministeri; e dall’altro lato i due generali, Mario Mori e Antonio Subranni, che invece i pm hanno messo sotto accusa come felloni e doppiogiochisti: mentre catturavano Totò Riina, sanguinario capo dei “corleonesi”, trattavano la pax mafiosa con Bernardo Provenzano e altri boss non meglio identificati.

Una guerra fratricida. Che, com’era prevedibile, ha portato sul palcoscenico del processo invidie e vecchi rancori, risentimenti e astiose rivalità. Una catena stremante di accuse e contraccuse, di denunce e querele, di ingiurie e diffamazioni. Per valutare la quale basta leggere il puntiglio con cui il colonnello Massimo Giraudo, esperto di trame nere, ha tracciato il profilo del generale Mori che nel gennaio del ’93, da comandante del Ros ebbe il merito di arrestare Riina ma che da quasi cinque anni siede come imputato della fantomatica Trattativa davanti alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto. Siede lì con Subranni, che fu suo successore al vertice del Ros, e anche con quei boss che nella terribile stagione delle stragi ebbe modo di perseguire e di arrestare. Paradossi della giustizia, verrebbe da dire. Ma la guerra fratricida non si ferma al violentissimo scontro giudiziario tra Mori e Giraudo. Il cartellino del livore lo ha firmato anche Saverio Masi, un maresciallo che – manco a dirlo – è il capo scorta di Antonino Di Matteo, il pubblico ministero più rappresentativo all’interno di questo processo. Ha accusato un generale, suo diretto superiore, di avergli impedito, negli anni immediatamente successivi alle stragi, la cattura di Bernardo Provenzano. Il generale lo ha querelato e sui torti e le ragioni dovrà pronunciarsi un tribunale.

Ma Masi non si è limitato ad accusare il suo superiore. In accoppiata con un altro maresciallo, Salvatore Fiducia, ha puntato il dito contro altri cinque ufficiali dell’Arma, accusandoli di ogni misfatto: soffiate canagliesche a favore di pericolosi latitanti, fonti confidenziali zittite, perquisizioni non eseguite. Tutte accuse che al giudice per l’udienza preliminare, Vittorio Alcamo, sono apparse però prive dei necessari riscontri. Anzi, così smaccatamente fasulle da disporre una imputazione coatta sia nei confronti di Masi che nei confronti di Fiducia.

Ma il maresciallo Masi non è nuovo alle disavventure giudiziarie. Era già inciampato in una condanna definitiva per avere tentato di non pagare una multa facendo carte false. Ora dovrà affrontare il processo per calunnia. Intanto però resta l’uomo più vicino (fisicamente, s’intende) a Di Matteo, il magistrato più scortato d’Italia, il nemico numero uno di tutte le mafie, il Grande Inquisitore che Beppe Grillo vuole già come ministro in un futuro governo guidato da Giggino Di Maio. Se Di Matteo sarà l’uomo che salverà l’Italia da tutti i mali che la ammorbano, accanto a lui non potrà che esserci un carabiniere. Non potrà che esserci il maresciallo Saverio Masi. E chi se ne frega di una condanna già definitiva o di un rinvio a giudizio. La luce – si legge nel Vangelo di Giovanni – taglia le tenebre ma le tenebre non l’afferrano. Il male oscuro attraversa la gloriosa Arma dei carabinieri ma sui muri delle caserme i carabinieri non l’afferrano e restano sempre “nei secoli fedeli”.


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