Palermo provincialissima | Ma la cultura dov'è? - Live Sicilia

Palermo provincialissima | Ma la cultura dov’è?

Andare in giro per cercare bellezza e trovare solo propaganda ed eventi approssimativi.

Rubina di cuori
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4 min di lettura

Aggirarsi per Palermo cercando cultura e invece trovarla sempre più incosciente e provinciale, lungo distese impensabili di food&beverage selvaggio, friggitorie, stuzzicherie, gelaterie e tutto. Così non sembra strano che più che a una capitale della cultura somigli a una gigantesca mensa, come concepita per sfamare eserciti, e a ogni angolo si vedono persone mangiare con un’avidità ingorda. La città, nonostante gli sforzi di propaganda cosmopolita strombazzata da amministrazione e indigeni ottimisti, sembra coltivare ostinatamente la sua maledizione di “nata perdente” con l’aggravio di manie di grandezza.

E presentando tutti i sintomi di un poverino qualsiasi che viene avvelenato giornalmente da una megera incattivita, come per esempio Madame Héloïse Villefort faceva con l’ignara Valentin sua figliastra: colorito spento, debolezza, confusione, astenia, irritabilità. Però, attenendosi ai giornali più euforici sembra che in questa città accada di tutto: patrimoni Unesco ogni quarto d’ora, amore per i libri a mai finire, mostre leggendarie, teatri epici, turismo a cascata e svariati rinascimenti. A ruota si presentano mostre mediocri, ma celebrate con favori talmente sospetti da far supporre un’operazione pubblicitaria in serie, per sostenere che il solito poco sarà meglio che niente?

Nelle sale del Duca di Montalto a Palazzo Reale, dal 28 marzo al 28 maggio si può visionare la mostra Sicilië – Pittura Fiamminga. Il tema non sarebbe tra quelli che seducono moltitudini, ma all’intellighenzia di una città conosciuta in tutto il mondo per folklore e mercati storici (e quanti colori, suoni e sapori, ma soprattutto che odori, Signora mia!) non manca quel ‘touch’ di marketing guitto, studiato accuratamente per valorizzare di tutto, inclusa la ‘merce’ più problematica, perciò basta la giusta messinscena e persino le lucciole sembreranno lanterne.

Cinque giorni prima dell’inaugurazione della mostra, la chiesa di Santa Caterina si è trasformata in palco del contemporaneo performativo-concettuale, e in un buio che (sfortunatamente) non riusciva ad annullare la vastità dello spazio, gli stilizzati gesti – e forse troppo naif –  delle due signorine hanno ‘svelato’ alla cittadinanza con l’acquolina alla bocca dapprima i volti delle due e poi al culmine di una suspence gestita a colpi di scampanellate, rotta da applausi timidissimi, eccolo apparire: quel piccolo, magico rettangolino colorato, una tavoletta raffigurante Santa Caterina d’Alessandria riferita (non si capisce però da chi) all’anonimo fiammingo, noto come Maestro della leggenda di Santa Lucia. Il sito della fondazione Federico II, per dircene di più sul Maestro, cita spudoratamente Wikipedia: è stato «artista attivo a Bruges, vicino ai modi di Hans Memling e Gerard David».

Salvati i cavoli con le capre, la trovata pubblicitaria ha funzionato e il pericolo di una inaugurazione deserta è probabilmente scongiurato. Chi rischierà di perdersi quest’opera proveniente dal convento di san Giacomo a Bivona e custodita nel convento dei Cappuccini di Palermo, che «dopo 32 anni di oblio» (cit. Repubblica Palermo del 24 marzo scorso) viene restituita ai palermitani?

Si può forse dubitare del fatto che il pane si vende meglio se nell’insegna della panetteria campeggia un prestigioso “dal 1994”? Certo che no! A garanzia che al cospetto di “Santa Caterina Superstar” i più non daranno troppo peso all’assenza di quei capolavori di autentico rilievo cui il titolo della mostra ammicca (a eccezione dell’opera degna di attenzione di Colijn de Coter, infatti, non ci si aspetti gli esiti magistrali di Jan van Eyck o Rogier van der Weyden, Hieronymus Bosch o Pieter Brueghel il Vecchio, Rembrandt o Vermeer). Ci si farà bastare il vasto orizzonte di patacche e grullate, che spazia dal virtuosismo fine a se stesso del verso del Trittico di Malvagna (uno degli esiti più vuotamente decorativi dell’opera – altrove pregevole – di Jean Gossart, detto Mabuse) alla non incisività disciplinare di alcuni dei lavori meno significativi della pur meritoria ricerca di Anton van Dick (Madonna con bambino e Crocifissione), fino al kitsch ante-litteram di una natura morta floreale di Abraham Brueghel. E così continuando lungo la sciatteria disarmante di un Jan van Houbracken (Il tatto, Il martirio di san Placido, Il gusto), la pop-devozione della Circoncisione di Simone de Wobreck o certo caravaggismo sgraziato e come immerso nella candeggina di Matthias Stomer (Morte di Catone, Seneca svenato).

Ancora una volta si direbbe che Palermo perde, soffocando nel vezzo di credersi tutt’altro e in questo sogno disperato di scrollarsi quel provincialismo culturale in cui nuota da un trentennio almeno. Fallisce, nei mascheramenti della sua marginalità, spacciandosi come uno di quei “poli culturali” di un’Italia non autoreferenziale ma storicamente in dialogo con le esperienze europee. E questi “Fiamminghi”, paradossalmente, fanno rimpiangere la mostra dedicata recentemente ad Antonio Ligabue, caso umano, pittore inesistente. Ennesima ‘periferia’, naturalmente, ma almeno in assenza di pretese, invece ormai di rito da queste parti.


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