Pizzo: chi paga e perché? | In 29 aiutati dallo Stato - Live Sicilia

Pizzo: chi paga e perché? | In 29 aiutati dallo Stato

I dati sono emersi nel corso dell'iniziativa del comitato antiracket.

PALERMO – Sono 29 le istanze pervenute alla Prefettura di Palermo, nel triennio 2015-2017, per l’accesso ai benefici previsti dalla legge 44 del 1991 per le vittime del racket, che hanno subito eventi lesivi per non aver aderito o per cessato di aderire a richieste di estorsione.

Sono stati 12 nel 2015, 9 nel 2016 e 8 nel 2017 (di cui sei riferibili a fattori estorsivi nuovi, perché due possono considerarsi un’integrazione-prosecuzione di istanze presentate negli anni precedenti).

I dati sono emersi nel corso dell’iniziativa “Le estorsioni a Palermo: chi paga e perché?”, organizzata a Palermo, da Addiopizzo, a ventisette anni dalla storica intervista rilasciata da Libero Grassi, l’imprenditore palermitano ucciso dalla mafia nel 1991 per avuto il coraggio di rendere pubblico il suo rifiuto di pagare il pizzo.

Da allora ad oggi, aldilà dei numeri, un cambiamento è in atto. “Mentre in passato – ha detto Daniele Marannano di Addiopizzo – chi pagava e non denunciava veniva giustificato e compreso, in ragione di uno stato di necessità che non prospettava altre strade, se non quella di vivere taglieggiati, oggi la scelta di pagare e non collaborare rappresenta un disvalore, perché, rispetto al passato, si sono create le condizioni per compiere questa scelta senza essere lasciati soli ed isolati”. “Tuttavia il fenomeno continua ad essere diffuso – ha aggiunto -, si rigenera e ci sono sacche di operatori, che continuano a pagare, perché con Cosa Nostra instaurano un rapporto di convenienza, certi commercianti pagano le estorsioni e si rivolgono agli estorsori per avere crediti e risolvere problemi di convenienza e questo rappresenta un tappo rispetto alla crescita delle denunce e va arginato”.

In sala anche i figli di Libero Grassi, Davide e Alice, il procuratore aggiunto di Palermo Salvatore De Luca, i rappresentanti della Prefettura e alcuni imprenditori, un siciliano e un bengalese, che hanno testimoniato la propria scelta di rivolgersi all’associazione e denunciare: il primo le richieste subite in un paese alle porte di Palermo, il secondo nella centrale via Maqueda a Palermo. “Oggi si può decidere da che parte stare e denunciare” ha osservato la figlia dell’imprenditore ucciso nel 1991. “Ventisette anni fa – ricordato Alice Grassi – un incontro simile è stato fatto al Comune, ma non c’erano neanche i nostri rappresentati eletti in Consiglio”.”Dai dati emersi – ha aggiunto – purtroppo il fenomeno è ancora molto presente in città, nonostante gli arresti e il lavoro delle forze dell’ordine”. “Sino a quando – ha concluso -non cambia la mentalità e la ‘mafiosità’ dei nostri concittadini, corregionali, connazionali, un cambiamento sarà difficile, perché i singoli mafiosi possono essere arrestati, ma se trovano sempre terreno fertile per continuare, è veramente difficile dare una svolta”.


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