Senza simbolo né progetto| La crisi del Partito Democratico - Live Sicilia

Senza simbolo né progetto| La crisi del Partito Democratico

Il modello del fuoriclasse che non passa la palla è da mettere in soffitta. 

CATANIA – La Waterloo di Enzo Bianco travolge il Pd. Il modello del fuoriclasse che non passa la palla è da mettere in soffitta. Sembra essere questo il messaggio che arriva dal voto amministrativo investendo in pieno un partito dilaniato dalle lotte intestine. Il modello “civico” Orlando style non ha avuto il potere taumaturgico sperato. Bianco può consolarsi per avare racimolato ben 4700 voti in più delle liste a suo sostegno, ma si ferma a quota 34000 preferenze a fronte delle oltre 40000 ottenute nel 2013. In sostanza, mancano all’appello più di seimila voti in questa tornata caratterizzata tra l’altro da una forte astensione. Lascia l’amaro in bocca l’esperimento delle “liste gratta e vinci”: basta sfregare il simbolo per scoprire chi è il deputato di riferimento. E a spuntarla sono soltanto ai turborenziani Valeria Sudano e Luca Sammartino che eleggono tre consiglieri tra le fila di ”Catania 2.0” e sfiorano di un soffio lo sbarramento con “Cambiamento Reale”. In termini di voti un esperimento (le due liste) che racimola quasi gli stessi voti di “Articolo 4” nel 2013 viaggiando intorno a quota 14000 voti. “Con Bianco per Catania” elegge tre consiglieri e la lista di Primavera per Catania, pur forte degli innesti dei barbagalliani (da sempre più radicati in provincia che in città come dimostrano i risultati degli altri comuni), non supera lo sbarramento e resta a bocca asciutta. Cinque anni fa sotto il simbolo dei dem entrarono in consiglio cinque candidati e la lista ottenne oltre 14000 preferenze.

 

Il tema del simbolo non è secondario. Il vento è cambiato non soltanto a livello locale ma il partito etneo era già sprovvisto degli anticorpi per resistere alla mutata fase politica. L’elemento identitario in questi anni è stato snobbato e la memoria storica riposta nel dimenticatoio come fosse un orpello polveroso e dannoso elettoralmente. E invece il centrodestra unito vince e lo fa con un candidato molto connotato politicamente (di provenienza missina) che, pur pescando in un bacino trasversale, non rinnega le sue origini, anzi fa spesso riferimento alla propria “comunità”. Ecco una parola pesantemente assente in questi cinque anni. “Il nostro limite principale è stato aver sottovalutato come il partito sia lo strumento indispensabile per ascoltare i cittadini e trasmettere ogni giorno i contenuti della nostra azione amministrativa e politica”, dice il segretario Napoli all’indomani del voto catanese.  E aggiunge: “L’idea che bastino solo leader capaci, per chi vuole davvero migliorare le nostre città e la vita dei cittadini, per una grande forza o una colazione progressista, è sbagliata. Noi abbiamo bisogno di iscritti e militanti motivati, che si sentano sempre protagonisti di un grande progetto di cambiamento”. Un’analisi puntuale, ma decisamente tardiva.

Basti pensare alla cronistoria dei malesseri che hanno scandito gli ultimi cinque anni del Pd. Le radici affondano nel terreno delle amministrative di cinque anni fa quando il partito si spacca proprio sulla candidatura di Enzo Bianco. O meglio, sulla possibilità di passare dalle primarie per la scelta del candidato sindaco. Una querelle lacerante che termina con le dimissioni dell’allora segretario Luca Spataro messo in netta minoranza dal voto dell’assemblea. E da lì il congresso annullato e infine la convergenza su Napoli investito del compito di mediare tra le varie anime. Il resto è storia recente. La direzione provinciale riunita dopo due anni di silenzio per confermare la candidatura di Bianco chiude il cerchio. Il problema non è la candidatura di un sindaco che tenta la riconferma, ma il ruolo silente che il partito si è ritagliato in questi cinque anni senza potere mettere bocca sulla direzione delle scelte amministrative. Il partito “gassoso” in questi anni si è affidato al suo condottiero solitario a Palazzo degli Elefanti. Politico navigato al quale la città non può non riconoscere anche enormi meriti sia chiaro. Ma azzerare le voci che chiedevano di invertire la rotta è stato miope. Se Bianco passerà agli annali come il sindaco della primavera che, piaccia o meno, ha radicalmente cambiato il volto della città, cosa resterà invece del Pd?

“Houston, abbiamo un problema” verrebbe da dire se ci si abbandona all’idea che trent’anni dalla prima elezione di Bianco nessuno possa prenderne in dote il testimone. Sul tavolo, ormai da anni, c’è il tema del ricambio generazionale. Le giovani leve ormai adulte (se non canute) e relegate alle seconde file o al rimorchio del big sono la rappresentazione plastica della sconfitta. E il limite del partito degli eletti si vede con maggiore chiarezza oggi che le poltrone scarseggiano. Ai tempi del populismo rampante l’unica ricetta possibile è tornare popolari (concetto ben diverso dal primo). Le saracinesche abbassate dei circoli e le porte spalancate delle segreterie sono una tendenza da invertire. Al netto del magrissimo bottino in termini di consiglieri comunali racimolati, fare opposizione costruttiva fuori e dentro il Palazzo rimane l’unica chance per ripartire. E adesso è il tempo di chi con umiltà vorrà rimboccarsi le maniche per lavorare con pazienza e senza clamore per una comunità e non per se stesso.

 

 

 

 

 


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