Palermo non ha più sogni | Pure il calcio è al capolinea - Live Sicilia

Palermo non ha più sogni | Pure il calcio è al capolinea

Cronaca di una crisi che non risparmia niente. Ecco perché la città non ama più.

PALERMO – C’era la pioggia allo stadio quel giorno in cui Santino Nuccio ci fece vedere che la bellezza può essere una questione di piedi. Un rombo di temporale bagnava la tristezza di un pareggio con la Juve Stabia. A quei tempi, per i ragazzi degli anni Ottanta, la partita era una cosa seria. Se fosse andata bene, avresti affrontato la settimana con animo sereno, interrogazione di matematica compresa. Altrimenti, il lunedì mattina sarebbe stato catalogato alla stregua di una frana sul sentiero della felicità.

Qualcuno tentò un lancio disperato al novantesimo verso l’area nemica. Non era un passaggio, piuttosto una preghiera. Un difensore colpì la palla che si alzò a candelotto. E fu lì che Santino ci fece vedere qualcosa che superava perfino la sforbiciata di Pelè-Fernandez, in ‘Fuga per la vittoria’. Un’altra rovesciata cinematografica dalla fisica inverosimile. Gol. E Santino cominciò a rotolarsi sul prato, pozzanghera dopo pozzanghera. E tutti saremmo rimasti lì per sempre, con lui, senza andare via mai. C’era un amore tinto di rosanero. E adesso quell’amore non c’è più.

C’era il vento allo stadio, quel giorno in cui Gianluca Berti, portiere per vocazione e matto per passione, ci fece vedere un dribbling insolito. Si perdeva uno a zero contro lo sparagnino Cesena: un tiro, una rete. E noi tutte le avevamo provate. Ma – quel giorno – Davide Micillo, portiere avversario, calzando gli stivaletti a molla di Paperinik, aveva parato perfino le mosche supersoniche.

Gianluca – mole da corazziere, occhi da bambino – si scatenò. Uscì dalla sua porta e si mise a marcare. Recuperò un passaggio sbagliato di Roberto Biffi, il capitano, lo rese addomesticabile. L’azione, poi, si sviluppò a destra. Cross di Vasari. Testa di Ferrara. Inevitabilmente, gol. C’era una tenerezza vestita di rosanero. E’ stata scucita dalla pelle di chi la proteggeva. Adesso non c’è più.

Dunque, la domanda è questa: perché Palermo non ama più il Palermo? Non c’è bisogno di dimostrare l’assunto. L’antica fede è andata via via scemando fino a consumarsi, se si esclude un manipolo di eroici e resistenti innamorati. Pure una prodigiosa promozione in serie A non l’avrebbe ravvivata, se non per un breve momento. Perché il palermitano non ama più il suo Palermo? “Colpa di Zamparini”, risponderanno tanti in coro. Fino a un certo punto, spiriti infiammati da curva, fino a un certo punto.

Maurizio Zamparini, personalmente in persona – non entrano nel racconto di umori e di amori spezzati le note vicende extrapallonare, sui cui non è ancora lecito dare un giudizio definitivo – ha evidentissime colpe sportive, per non avere capitalizzato anni d’oro e magnifici campioni in grado di scrivere le pagine di un’epica. Eppure, il patron ha rappresentato (anche) un comodo rifugio per la porzione maggioritaria di una tifoseria che ha intessuto con il potente di turno il consueto rapporto di furba e infine fallimentare sottomissione in voga dalle nostre parti: il re è buono, finché appaga il popolo con i giocattoli richiesti, altrimenti si prepari subito la ghigliottina della ricusazione.

Ammettiamolo, era soltanto reciproco interesse. Ma senza amore, senza pari dignità, senza capacità di soffrire insieme, senza altruismi, senza un vero dialogo, senza un legame che vada oltre gli spiccioli del quotidiano, nessuna comunità può crescere e durare. Tutti conservano un bene, ognuno per la sua quota. Tutti lo perdono insieme.

Intanto, quell’interrogativo rintocca, sempre più insidioso: perché il Palermo non è più amato dalla sua Palermo? Forse perché mancano gli eroi a incendiare la gioia della folla? Forse perché non ci sono più sfide epocali? Forse perché non vediamo da anni il miracolo di Cassani contro la Juve, con Buffon impalato, a gambe larghe? O forse perché Palermo non sa amare più nulla, nemmeno se stessa e i suoi sogni? Ecco la risposta che eludiamo per lo smarrimento che provoca. Ecco la nostra perpetua condanna all’infelicità.

Palermo non ama più: è la ferita che non si rimargina. Palermo disoccupata non ama più le sue strade e le sue contraddizioni, la sua bellezza e le sue brutture, le sue anime e i suoi corpi. Palermo poverissima, a dispetto del marketing del bello, è reclusa nel rancore, nell’involuzione, prigioniera di un tangibile disastro sociale, incatenata a un’immobilità che non conosce sussulti. Palermo stracciona è ferma nella sua testa, arida nel suo cuore, impotente nei suoi gesti.

Sfocate appaiono le diapositive di un presidente e di un sindaco che festeggiavano i successi all’unisono, un’assenza che narra una crisi complessiva. Non esistono zone franche per respirare aria pulita, lontano dagli affanni. Non c’è un minuto che sia alleggerito di rabbia per l’immediato o preoccupazioni per il futuro. E non vuole amare più per dispetto, questa città che è tornata somma di tragiche singolarità, prive di un destino comune. Ognuno sta a casa sua. Come può regnare la meraviglia, dove la vita è soffocata dalle necessità?

Il calcio era appena uno dei sogni, il più dolce, il più fragrante, che non possiamo più permetterci, presi come siamo dalla fatica della sopravvivenza. Non ci sono più le domeniche di una volta. L’esistenza dei palermitani somiglia, ormai, alla ripetizione incessante di un lunedì che frana.


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