Cucchi e Provenzano | Il valore della persona - Live Sicilia

Cucchi e Provenzano | Il valore della persona

I torti della vittima non giustificano mai le colpe dei carnefici. Soprattutto, se il carnefice è lo Stato.

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La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia, per la sua decisione di continuare ad applicare il 41bis a Bernardo Provenzano, nonostante le sue gravissime condizioni di salute lo rendessero inoffensivo. Non vorrei soffermarmi sulla giustizia o meno di questo regime detentivo, estremamente duro. Mi sono trovato a modificare le mie idee un paio di volte sull’argomento, ma sono in buona compagnia: la stessa giurisprudenza ha cambiato più volte le condizioni concrete in cui il 41bis dev’essere applicato, dal divieto di cucinare cibo in cella al diritto allo studio ecc.

Oggi sono giunto a una sola conclusione certa: si tratta di un regime che andrebbe applicato con estrema prudenza. Ciò che mi interessa, adesso, è un altro tema: la nostra reazione di fronte alla sofferenza dell’altro. Alla notizia della condanna per la violazione dei diritti umani di Provenzano, la risposta di moltissime persone sui social è stata quella che era facile attendersi: non importa che fosse o meno incapace di nuocere, Provenzano meritava in ogni caso di soffrire a causa dei crimini che ha commesso. Molti ritengono che il dolore da lui subito fosse giusto e auspicabile.

Intendiamoci, nel concetto stesso di pena vi è anche quello di afflizione, che viene procurata all’altro come risarcimento parziale per il crimine commesso e per il danno che ha inferto alla società. Ma dev’esserci proporzionalità. E ragionevolezza. Se Provenzano non era più in grado di commettere delitti di alcun genere, mantenerlo nel regime carcerario previsto dal 41 bis era una pena irragionevole, che non può essere giustificata con un sentimento di vendetta.

La soglia di sofferenza che siamo disposti ad infliggere all’altro, colpevole o presunto tale, è un buon indice per misurare il nostro livello di civiltà. Gran parte degli stati del mondo hanno bandito la pena di morte dal proprio ordinamento, perché la​ ritengono, giustamente, una pena disumana. Fino all’inizio dell’età moderna, la tortura era ritenuta legittima da parte dello stato, sia come strumento di punizione che come modalità di interrogatorio. Oggi la tortura è considerata un reato nella maggior parte dei paesi che si ritengono civili, anche se viene spesso praticata in maniera occulta, tra le pieghe degli apparati statali.

Nei giorni scorsi si è parlato molto della vicenda di Stefano Cucchi, il geometra romano, che sarebbe stato picchiato selvaggiamente in una caserma dei carabinieri e morto come conseguenza delle violenze inflitte. Il processo è ancora in corso e le responsabilità devono essere accertate, ma in tanti hanno ritenuto di dover ‘relativizzare’, se non addirittura sminuire, il calvario di Cucchi, riferendosi a lui come ‘il tossicodipendente’.

Al di là del fatto che Cucchi non abbia subito una condanna per spaccio e che al momento del suo arresto non fosse nemmeno sotto processo, quello che lega la sua vicenda alla sorte di un criminale come Provenzano è lo stesso ragionamento sbagliato, che in tanti si ritrovano a fare: la tutela dei diritti umani dipenderebbe  dal valore che attribuiamo a una persona. Qui si pone almeno un problema: chi decide qual è il valore di un uomo o di una donna? La fedina penale? I social? I sondaggi? Ci sono diritti che appartengono a tutti, indistintamente.

Oppure decidiamo che esistono vite di scarto, come le chiama Papa Francesco, che non hanno valore. Si tratterebbe allora di stabilire i parametri per determinare il valore della persona. I crimini commessi? E perché non la produttività? O la capacità di comunicare? Il diritto alla vita, a non subire tortura, pene o trattamenti degradanti, a veder rispettata la propria dignità, non dipendono dal valore che la maggioranza attribuisce ad un individuo, ma appartengono alla persona in​ quanto tale. Invocare eccezioni sui diritti, perché riteniamo di non riconoscere all’altro la sua umanità, significa aprire una porta sull’abisso. Infine, i torti della vittima non giustificano mai le colpe dei carnefici. Soprattutto, se il carnefice è lo Stato.

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