Il bacio alla bara, quella maglietta | L'addio di Giuseppe ai suoi cari - Live Sicilia

Il bacio alla bara, quella maglietta | L’addio di Giuseppe ai suoi cari

I funerali delle vittime di Casteldaccia. La commozione di chi era presente.

PALERMO - LA CERIMONIA
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PALERMO – Monsignor Giuseppe Oliveri invoca il “Dio della speranza” in apertura di celebrazione. È a lui che ci si deve aggrappare nel giorno in cui la speranza terrena è morta, sigillata dentro nove bare.

C’è una distanza difficile da colmare. Serve davvero un atto di fede per cogliere l’imperscrutabile disegno. Il primo ad ammetterlo è lo stesso Oliveri, perché qualsiasi parola venga pronunciata oggi “è poca cosa rispetto a ciò che state vivendo”, dice rivolgendosi ai parenti stretti attorno alle bare. Una fila di bare che copre in larghezza tutta la grande navata centrale.

Sono le immagini a ostacolare lo slancio di noi tutti comuni mortali verso qualcosa che trascende il dolore umano. Un leoncino di peluche sopra la bara bianca, una maglietta della Juventus che un bambino mai indosserà perché è morto a tre anni, una bimba che lancia baci all’indirizzo di una fotografia che tiene stretta al petto. Giuseppe Giordano ha perso la sua famiglia. Gli è rimasta una figlia che adesso lo sorregge quando si trascina per baciare le bare nel momento in cui il celebrante invita a scambiarsi un segno di pace.

“Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”: monsignor Oliveri cita il vangelo di Matteo per ricordare che la morte “arriva improvvisa, inattesa, oltre che dolorosa”. Quanto è difficile prepararsi alla morte, specie se giunge con un fiume che esonda e ti uccide. Anche Oliveri non si sottrae al confronto con il dolore umano quando chiede “giustizia per chi non c’è più”, perché “è doveroso che ci si interroghi a tutti i livelli per spiegare cosa è successo”, sperando di non assistere al “rimpallo di responsabilità”. Poi, torna doverosamente a parlare alle anime, lui che delle anime è il pastore: “Siamo qui per pregare”.

Giuseppe Giordano agita la testa con un movimento ripetitivo dall’alto verso il basso. Ha lo sguardo perso nel vuoto. Luca Rughoo, che si è salvato dalla strage, si muove in maniera nevrotica davanti alle tre bare dei suoi cari, compresa quella che ospita, per sempre, un figlio di tre anni.

Quanto è distante il Dio della speranza. È il mistero delle fede, a cui rimanda il messaggio dell’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che si trova all’estero: “Il Signore non diede spiegazione alle disgrazie, ma si fece carico delle nostre tristezze. Dobbiamo fermarci davanti a tanta sofferenza. Dobbiamo fare nostro il dolore, cambiare tutti e convertirci”.

La messa è finita. Le bare vengono portate in spalla fuori dalla Cattedrale. Un uomo, poco prima di avvertire un malore, alza una grande fotografia con una cornice di rose bianche. C’è l’immagine di Francesco Rughoo abbracciato alla mamma. Una scritta ricorda che “nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta”. È la speranza a cui un’intera comunità si affida di fronte a una morte senza senso, nella speranza di incontrare il “Dio della speranza”.

> Le foto del funerale

> L’ultimo saluto a Federico, il fratellino eroe

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