Samuele, morto suicida in carcere | "Mio figlio non doveva essere lì" - Live Sicilia

Samuele, morto suicida in carcere | “Mio figlio non doveva essere lì”

Lucia Agnello (al centro) con le figlie Annalisa (a sinistra) ed Ester

Samuele Bua si è suicidato al Pagliarelli. Troppi, forse, l'hanno dimenticato. La sua famiglia no.

PALERMO- La madre tiene accanto al cuore il figlio, ritratto nella fotografia sul tavolo del soggiorno. Si chiamava Samuele Bua, aveva ventinove anni. Si è ucciso, il 4 novembre, in una cella del carcere Pagliarelli, a Palermo. Quasi tutti lo hanno già dimenticato, perché per troppi indifferenti il suicidio dietro le sbarre è la variante di una atroce normalità. Coloro che lo amavano, però, non si rassegnano a pensarlo come una cosa di cui si può fare a meno. Samuele, nell’immagine sbiadita, non somiglia a un ragazzo cattivo; smarrito, questo sì. Gli occhi chiari. Il sorriso vago.

Sua madre, Lucia Agnello, non grida, non alza nemmeno la voce, mantiene una compostezza che ha il peso della dignità. Dice: “Mio figlio stava male, non doveva essere lì”. C’è una denuncia presentata dalla famiglia. Un’inchiesta accerterà i fatti e chiarirà se ci siano state responsabilità in calce alla tragedia. La signora Lucia, intanto, racconta la storia di un essere umano precipitato nella sofferenza e nell’oblio, attraverso la discarica che chiamiamo carcere: il tappeto che nasconde la polvere dolente che non vogliamo vedere.

“Sì, mio figlio stava tanto male – racconta Lucia, assistita da Annalisa ed Ester, altre due figlie – ma di indole era un buono. Abbiamo cercato di non fargli mancare niente dal punto di vista affettivo. Lui era difficile e non siamo stati aiutati da nessuno. Nessuno ci è mai venuto incontro… Ha avuto guai con la droga. Era un tipo nervoso, strappava i documenti e si arrabbiava. L’ultima volta non era riuscito a prendere la pensione e si è arrabbiato ancora di più, non ci stava con la testa… Mi ha chiesto dei soldi, mi ha aggredito. I vicini, sentendo il trambusto, hanno chiamato i carabinieri”.

Siamo nel maggio scorso. C’erano stati delle denunce e un provvedimento di allontanamento. Samuele Bua soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione. La diagnosi di schizofrenia e turbe comportamentali aveva preceduto il riconoscimento di una invalidità all’ottanta per cento. Era stato ricoverato, in una occasione, per le ferite ai polsi che si era inflitto da solo. Tutto secondo quanto riferito dai familiari. Dopo l’arresto, il percorso classico: le udienze, la vita al Pagliarelli, le visite.

Lucia racconta: “In cella aveva rotto un vetro, lanciando un pezzo di caffettiera. Sono andata a trovarlo il più possibile, per quanto era consentito. Era depresso, mi abbracciava, mi baciava e piangeva. Il 21 settembre l’ho trovato molto agitato. Si lamentava, faceva discorsi strani, ripeteva che voleva morire e che aveva una lametta nella scarpa. Io quella lametta, per la verità, non l’ho vista, ma ho avvertito subito gli agenti. Chi c’era si è messo in azione per controllarlo. Samuele era in isolamento. Lui non voleva starci con gli altri detenuti, si sentiva deriso e non capito. Per qualche settimana non ha voluto neanche incontrarci”.

La madre accarezza la foto. Annalisa ed Ester la sorreggono durante la chiacchierata. Gli sguardi, a turno, riflettono la profondità della mutilazione. Dal Pagliarelli non si levano repliche, secondo le regole e il riserbo dovuto in presenza di una indagine. Si avverte umana condivisione con la consapevolezza del disagio. Tutto va a finire laggiù, pure i corpi e le anime che andrebbero accuditi altrove. Prigionieri insieme: personale e detenuti nella discarica sociale che inghiotte le esistenze. L’inchiesta verificherà le circostanze riportate nell’esposto. L’avvocato Filippo Mulè, che segue la famiglia Bua, commenta: “Attendiamo gli esiti dell’autopsia. Chiediamo e speriamo che venga fatta piena luce sull’accaduto”.

Pino Apprendi, presidente di ‘Antigone Sicilia’, ha espresso indignazione con parole dure: “Ormai è routine, non fa più notizia, tanto il detenuto è considerato un rifiuto. Il ministero non penserà nemmeno di fare una ispezione, sarebbe una perdita di tempo inutile secondo qualcuno. Io dico basta, non è giusto che avvengano tanti suicidi nel carcere, qualcosa non funziona. Questo ragazzo ha ricevuto tutte le cure necessarie? Gli psicologi e gli educatori lo hanno incontrato? Ci sono le relazioni quotidiane dei medici che avevano l’obbligo di visitarlo? Quanti giorni è stato in isolamento e perché non era nel reparto di psichiatria? Possibile che non ci siano responsabili della vita di un uomo o di una donna che entra nel carcere?”. 

Il garante dei diritti dei detenuti, Giovanni Fiandaca, si è recato nella struttura: “Dei sei psichiatri presenti sulla carta – ha dichiarato – in atto al Pagliarelli sono disponibili e in servizio soltanto in due. Troppo pochi se si considerano le dimensioni del carcere. Occorre che le autorità sanitarie competenti si facciano carico al più presto di intervenire per garantire un servizio psichiatrico adeguato”.

Intanto, Samuele Bua è morto. Aveva ventinove anni. Si sarebbe impiccato con i lacci delle scarpe. Gli indifferenti penseranno che non vale la pena di parlarne, né di soffermarsi sull’indistinto carnaio che agonizza all’ombra di corridoi e chiavistelli, la polvere sotto il tappeto. Eppure, questo ragazzo era una persona, come i suoi compagni di reclusione. Era amato ed è rimpianto, oltre gli errori e gli smarrimenti, questo figlio che ora riposa in pace, sul tavolo del soggiorno, accanto al cuore di sua madre.

 

 

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