Spie, strani ladri, falsi pentiti | Il grande inganno di via D'Amelio - Live Sicilia

Spie, strani ladri, falsi pentiti | Il grande inganno di via D’Amelio

Nella relazione dell'Antimafia dell'Ars le tante irritualità e reticenze legate alle indagini sulla strage.

La relazione dell'Antimafia
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La casa di campagna del giudice messa a soqquadro dopo la strage. Gli uomini dei servizi in giacca e cravatta attivi, anzi attivissimi, in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. Il braccio destro di Paolo Borsellino sentito dai magistrati solo quattro o cinque mesi dopo l’eccidio. Quegli stessi magistrati che per 57 giorni, quelli tra Capaci e via D’Amelio, non interrogarono mai Borsellino in merito all’omicidio dell’amico e collega Giovanni Falcone.

Non c’è solo l’agenda rossa. Le anomalie e “irritualità”, parola che ricorre almeno una decina di volte nel documento, delle indagini sulla strage di via D’Amelio sono ormai in buona parte note. Ma leggerle messe in fila nelle ottanta pagine della relazione finale prodotta dalla commissione Antimafia dell’Ars dopo l’indagine sul depistaggio fa un certo effetto.

La stessa mano?

“La stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa Nostra nell’organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio ed allontanare le indagini dall’accertamento della verità”, ipotizza la commissione presieduta da Claudio Fava. Che in conferenza stampa, presentando a relazione, ha parlato di stranezze e irritualità cominciate subito dopo la strage. La relazione parla di “almeno tre diversi episodi “di un’azione coordinata”, destinati a manipolare la scena della strage, a trafugare documenti, a sottrarre prove”. Li riferisce all’Antimafia il magistrato Nico Gozzo. C’è la casa di campagna, dove irrompe uno strano ladro. “Sapevano tutti che Borsellino – racconta Gozzo -, prima di morire va nella casa di campagna, a Villagrazia di Carini e in effetti dopo qualche settimana viene trovato un portacenere pieno di sigarette (…) Fatto è che quando (i familiari) vanno là per la prima volta, la porta era stata aperta perché lo studio era a soqquadro (mentre) tutto il resto era perfettamente a posto. Quindi, un ladro “anomalo” perché non aveva toccato nulla delle cose che c’erano all’interno della casa”. Poi c’è lo studio di Borsellino a Palazzo di Giustizia: “(I figli) hanno verificato immediatamente che qualcosa non andava. Sebbene il padre avesse lavorato moltissimo in ufficio e di meno a casa, sopra la scrivania non c’era quasi niente. Tutto sembrava perfettamente messo in ordine. I familiari avevano pensato: ‘qualcun altro ha ripulito tutto…’”.

Ma prima di tutto c’è via D’Amelio. Lì dove sparisce la famosa agenda rossa, quella su cui Borsellino avrebbe scritto gli appunti più scabrosi e delicati. Una circostanza nota. Su cui però non si indaga. Per anni. Gozzo ricorda della presenza sulla scena del delitto di uomini dei servizi “intenti a cercare la borsa del magistrato attorno all’auto”. La circostanza si legge nella sentenza del Borsellino quater: un testimone, un poliziotto della Mobile di Palermo, riferisce degli attivissimi uomini dei servizi tutti in giacca e cravatta, da ui trovati già in via D’Amelio dopo l’esplosione.

Spie e misteri

“Servizi” è la parola chiave del mistero. Il ruolo degli 007 nelle indagini costituisce una delle più macroscopiche anomalie della vicenda. Perché i magistrati nelle inchieste devono affidarsi alla polizia giudiziaria, non certo al servizio segreto. Ma a Caltanissetta va diversamente, da subito. Il procuratore Tinebra chiede l’aiuto di Bruno Contrada, numero tre del Sisde, già il 20 luglio. Tutti sanno, nessuno obietta nulla. Da Tinebra, il capocentro Sisde di Palermo Ruggeri riceve, racconta Piero Grasso alla commissione “l’incarico, irrituale assolutamente, di fare indagini sulle stragi. Il colonnello però non accetta l’incarico se non autorizzato dal suo centro Sisde di Roma e di intesa con la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri, a cui secondo la normativa andavano le notizie di qualsiasi informazione che potesse aiutare le indagini”. Tutti sapevano. Ci fu anche un pranzo, di cui ha raccontato il pm Petralia ai commissari dell’Antimafia, all’hotel San Michele di Caltanissetta: i pm della procura nissena con i vertici del Sisde. C’era anche Contrada. Che nel frattempo stava per essere arrestato dalla procura di Palermo.

Si legge nelle conclusioni della relazione della commissione: “E’ certo il ruolo che il SISDE ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta, procurando le prime note investigative che contribuiranno a orientare le ricerche della verità in una direzione sbagliata”.

Scarantino e gli altri

Ci sono poi le pagine dedicate al ruolo di Arnaldo La Barbera e del suo gruppo “Falcone-Borsellino” e quelle sulla sventurata gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino. Un piccolo delinquente subito accreditato dai servizi in un’informativa come un mafioso di vaglia. Anche qui tante anomalie. Come quella incredibile dei verbali del confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera che demolivano la sua credibilità. Quei verbali furono depositati solo molto tempo dopo. Con la commissione ne ha parlato l’allora aggiunto Paolo Giordano. “Il deposito di quei verbali demolitori della figura di Scarantino – si legge nella relazione dell’Antimafia -, quanto al profilo e criminale quanto al contenuto delle dichiarazioni, avrebbe potuto incidere sensibilmente sulle conclusioni di quel processo. Che invece, com’è noto, si concluse accettando l’intero impianto accusatorio basato sulla parola di Scarantino e condannando all’ergastolo persone totalmente estranee alla strage di via D’Amelio”. A cosa serviva “il pupo” Scarantino? “La sua improvvisa e immediata irruzione nello scenario processuale – ipotizza la commissione – probabilmente doveva servire, con le sue propalazioni, ad escludere ogni possibile sospetto che mandanti della strage potessero essere anche soggetti estranei all’associazione mafiosa”.

Reticenza collettiva

La filiera delle responsabilità è lunga. Nelle conclusioni della relazione si legge: “Certo, infine, ripetiamo, il contributo di reticenza che offrirono a garanzia del depistaggio – consapevolmente o inconsapevolmente – non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali. Ben oltre i nomi noti dei tre poliziotti, imputati nel processo in corso a Caltanissetta, e dei due domini dell’indagine (oggi scomparsi), e cioè il procuratore capo Tinebra e il capo del gruppo d’indagine “Falcone-Borsellino”, Arnaldo La Barbera”. E così 26 anni, quasi 27 ricordava oggi ai giornalisti Fiammetta Borsellino, sono passati. E osserva la commissione nelle conclusioni, “se i molti che ebbero consapevolezza delle forzature avessero scelto di non tacere, se non vi fosse stata – più volte e su più fatti – una pervicace reticenza individuale e collettiva, non saremmo stati costretti ad aspettare la collaborazione di Gaspare Spatuzza per orientare le indagine nella direzione opportuna”.


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