Trivelle in mare da Gela a Pozzallo | La mappa del petrolio in Sicilia - Live Sicilia

Trivelle in mare da Gela a Pozzallo | La mappa del petrolio in Sicilia

Piattaforma al largo di Pantelleria (Foto di A. Giordano)

Nel canale di Sicilia si cerca petrolio dagli anni 60. In totale sono nove le concessioni, tra estrazione e ricerca. La polemica con il governo.

CATANIA – Nel Canale di Sicilia viene estratto più di un terzo del petrolio offshore italiano, e il numero di barili potrebbe crescere ancora. I tre permessi di ricerca nel Mar Ionio autorizzati dal Ministero dello Sviluppo economico hanno scatenato oggi la polemica tra ambientalisti e governo, che è stato accusato, da attivisti come il cofondatore del comitato No triv Enzo Di Salvatore, di avere tradito le promesse di bloccare nuove perforazioni petrolifere, fatte nel corso della campagna elettorale. Ma quali sono i campi petroliferi nei mari siciliani? Quanto petrolio estraggono?

Cercare il petrolio

L’offshore siciliano è distribuito lungo tutto il canale di Sicilia, da est di Malta al tratto di mare a nord di Pantelleria, in nove concessioni o “titoli minerari”. Tre sono concessioni di coltivazione, campi di petrolio o gas in cui il petrolio è stato trovato; sono stati perforati dei pozzi e questi sono stati collegati a delle piattaforme produttive. Nelle tre concessioni siciliane sono in attività cinque piattaforme, e solo con queste la Sicilia copre più di un terzo della produzione offshore italiana, con 228 mila tonnellate di petrolio prodotte nel 2017. Numeri che comunque coprono una piccola parte del fabbisogno energetico nazionale: sempre nel 2017, secondo i dati resi pubblici dal Mise, il totale della produzione di petrolio in Italia è arrivato a 4,1 milioni di tonnellate, coprendo circa il sette per cento della fame energetica nazionale. A questo sette per cento l’offshore ha contribuito per circa un sesto, con 650 mila tonnellate.

Di fronte a Gela sorge la decana delle strutture petrolifere offshore europee. Gela Uno risale ai primi progetti di sviluppo voluti dall’Eni in Sicilia negli anni sessanta, e oggi è collegata a undici pozzi. Poco dietro l’orizzonte, nel tratto di mare tra Gela e Licata, si sviluppa il campo petrolifero su cui operano Perla e Prezioso, collegate ad altri undici pozzi. Tutte le piattaforme del gelese sono operate da Eni, attraverso la sua società controllata Eni Mediterranea Idrocarburi, e nel 2017 hanno prodotto circa 110 mila tonnellate di petrolio, poco meno della metà del totale.

La piattaforma Vega A produce, da sola, l’altra metà del petrolio marittimo siciliano. Installata nel 1987 su un fondale di 120 metri al largo di Pozzallo la piattaforma è la più grande dell’offshore italiano e pesca con venti pozzi da un giacimento a quasi tremila metri sotto il fondo marino. La piattaforma è collegata a una petroliera, la Leonis, ancorata in permanenza a due chilometri e mezzo dalla struttura. La Leonis raccoglie tutto il petrolio estratto dalla Vega, lo riscalda e lo stocca. Periodicamente poi un’altra petroliera raccoglie il petrolio e lo invia sulla terraferma.

Cercare petrolio

Gli altri titoli minerari nel canale di Sicilia sono permessi di ricerca, come i tre nel mar Ionio su cui si è scatenata la polemica tra il governo e gli attivisti. All’interno di un permesso di ricerca una società può cercare idrocarburi attraverso delle tecniche sismiche come, tra le altre, l’airgun, ovvero l’esplosione di aria ad altissima pressione che, diffondendosi nel sottosuolo, rivela la presenza di liquidi o gas. Proprio questa tecnica è stata al centro di critiche da parte del mondo ambientalista, secondo il quale le esplosioni di aria compressa potrebbero causare danni alla fauna marina, soprattutto ai cetacei. Se ha trovato il petrolio, la concessionaria può passare poi ad altre attività di ricerca come lo scavo di un pozzo e l’analisi di una piccola porzione di petrolio. Tutte le fasi della ricerca devono essere autorizzate dal Ministero dell’Ambiente, con valutazioni di impatto ambientale, e poi confermate dal Ministero dello Sviluppo economico, da cui dipende l’ultima parola sulla concessione o meno delle autorizzazioni.

Le zone dei mari siciliani in cui in questo momento si fa ricerca di idrocarburi sono, dunque, sei. Di queste, due sono assegnate alla inglese Northern Petroleum, oggi diventata Cabot Energy, società attiva anche nell’estrazione di sabbie bituminose del Canada. I due tratti di mare, contrassegnati nei documenti ufficiali del ministero come CR 146 NP e CR 149 NP, sono molto vicini al campo Vega, e gli inglesi hanno individuato una formazione, Vesta, in cui hanno stimato una riserva di almeno 400 milioni di barili. Il permesso è stato assegnato nel 2004 ma è stato sospeso nel 2010, perché Cabot deve passare allo scavo del pozzo di esplorazione a più di quattromila metri sotto il fondo marino ma non ha ancora trovato un impianto per farlo.

La ricerca low cost

Sono stranieri anche i titolari di un altro permesso di ricerca a ovest di Pantelleria. La compagnia australiana Adx Energy ha basato tutta la propria strategia di mercato sullo sfruttamento di pozzi di petrolio già scoperti ma abbandonati da compagnie che non li ritenevano convenienti. Bassi rischi, alti introiti e in breve tempo: è il modello low cost applicato al petrolio. Gli australiani controllano il permesso di ricerca GR 15 PU, ma anche in questo caso la concessione risulta sospesa fino a che, si legge nei documenti del ministero, “non verrà reperito idoneo impianto di perforazione”. In più alla fine dello scorso ottobre la Adx ha comunicato ai suoi investitori di avere trovato un partner per sfruttare un altro permesso a nord di Pantelleria, il d 363 Cr Ax, in cui si trova un campo scoperto dall’Agip negli anni settanta. Il campo fu abbandonato alla fine degli annui ottanta perché l’acqua si infiltrò nei pozzi e tagliò la produzione, ma Adx sostiene che con le tecnologie di oggi è possibile renderlo di nuovo produttivo e attende il parere del ministero dello Sviluppo economico, che all’inizio del 2018 aveva comunicato alla compagnia australiana di non poter concedere il permesso fino a che non avesse avuto abbastanza risorse da coprire tutti i lavori previsti dal programma tecnico, inclusa l’apertura di un pozzo al quarto anno di esplorazioni.

Adx Energy non è nuova ai mari siciliani, dato che dieci anni fa aveva cercato di ottenere un permesso di ricerca contiguo a quello per cui oggi ha fatto domanda, sui fondali del canale di Sicilia. L’iter amministrativo si fermò alla valutazione di impatto ambientale perché, come scrisse la commissione incaricata di valutare i documenti, lo studio geologico presentato dalla filiale italiana della Adx risultava “superficiale e lacunoso, in particolare non si fa alcuna menzione al fatto che l’intera zona è considerata ad alta pericolosità sismica con la presenza di vulcani ancora attivi. Tale sismicità genera fattori di rischio inconciliabili con le attività estrattive petrolifere”. Proprio sulla base dell’impatto sulla zona la commissione tecnica espresse parere negativo alla fattibilità ambientale, e il permesso venne negato.

Offshore Ibleo

Le ultime due concessioni di ricerca non riguardano il petrolio ma il gas, in due zone contigue al largo di Licata. I entrambi i permessi l’operatore è Eni, che punta a sviluppare i giacimenti chiamati Argo, Cassiopea e Panda. I tre campi conterrebbero in totale undici miliardi di metri cubi di gas da sfruttare nei prossimi venti anni. Il progetto di coltivazione all’inizio prevedeva l’installazione di una nuova piattaforma nei pressi dei pozzi, la Prezioso K, una sorta di centrale di controllo, ma in seguito a un ricorso di enti e associazioni locali Eni ha cambiato il progetto e ha spostato tutte le infrastrutture di controllo a terra, in una zona della raffineria di Gela, eliminando del tutto la Prezioso K. Di conseguenza, il ministero per l’ambiente ha fornito una valutazione di impatto ambientale positiva.

Oltre allo sfruttamento dei tre campi conosciuti Eni progetta anche l’apertura di due nuovi pozzi esplorativi nella stessa zona, Centauro e Gemini. L’intero investimento rientra nel protocollo per Gela firmato dall’azienda nel 2014, in cui è stabilito un investimento di due miliardi e duecento milioni nella zona. Di questi, un miliardo e ottocento milioni di euro sono riservati alle attività di upstream, ovvero alla ricerca di nuovi giacimenti e al perfezionamento di giacimenti già esistenti, tra cui rientrano i pozzi di Argo e Cassiopea. Il resto, quasi cinquecento milioni di euro, è destinato alla riconversione della raffineria di Gela, che nei prossimi mesi inizierà a produrre biocarburante da olio di palma. L’intero progetto dell’offshore ibleo, in altre parole, è parte della strategia di Eni di abbandonare progressivamente il petrolio per orientarsi sempre di più sulla ricerca e produzione di gas naturale, un settore in cui l’Italia importa sempre di più ma la cui produzione nazionale è in calo costante da quindici anni.

 


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