L'amore che non vuole | vivere con una macchina - Live Sicilia

L’amore che non vuole | vivere con una macchina

Una storia per capire cosa possiamo decidere circa la nostra morte.

Garofalo all'occhiello
di
4 min di lettura

Questa è una storia odierna. Sei lì, i piedi sullo zerbino e il dito vicino al campanello, ma non ti va di spingere. Ci sono porte che vorresti non si aprissero mai. Dietro la porta – lo sai già – c’è Marta, insegnante sulla sessantina, seduta in una poltrona che da qualche mese è divenuta un tutt’uno con lei in un’immagine unica, fatta di movimenti sempre più limitati e inefficaci. L’ostacolo al mio dito, che non vuole schiacciare il pulsante, si chiama SLA, la malattia di Marta. L’acronimo non nasconde solo un termine scientifico (Sclerosi Laterale Amiotrofica) scarsamente comprensibile ai non addetti: dentro c’è un destino segnato, fatto di un’immobilità sempre più grave; un irrigidimento progressivo del corpo, attorno ad una mente che spesso rimane lucida. Troppo lucida.

La porta si è già aperta e ho già guadagnato la mia posizione ormai diventata consueta, da quando ci conosciamo. Lei mi sta di fronte, i nostri occhi si guardano senza tristezze, la sua bocca con una smorfia accenna un sorriso difficile.

Questa è una storia attuale. Marta è stata tra le prime persone ad aver depositato al Comune la sua ‘Disposizione Anticipata di Trattamento’. Lo ha fatto quando la diagnosi era ormai certa, dopo alcuni mesi nei quali aveva sperato con tutte le forze che i suoi disturbi fossero espressione di qualcos’altro, di più clemente e tollerabile, non di una condanna. E ha disposto di rinunciare alla tracheostomia ed alla ventilazione artificiale, qualora le condizioni dovessero aggravarsi impedendole di respirare. Ha scelto per la via più breve, senza dipendenze artificiali; la legge oggi glielo consente.

L’alternativa sarebbe una sopravvivenza maggiore, ma in un progressivo congelamento, senza altre strade. Una vita inedita, alle dipendenze di una macchina. Ne parlammo a lungo, prima di apporre le nostre firme, un mese fa, ma prima di firmare lei volle restare sola. Questo ricorda: la sua solitudine e il freddo della superficie del tavolo. Quando raccolse le sue energie per tradurle in volontà scritte, da rispettare, chissà quando e chissà da chi, “speriamo mai, speriamo da nessuno!”, era sola con la sua anima ed un bicchiere di the.

Quando offrì quel foglio di carta al messo comunale ne raccolse un sorriso tiepido. Non formale, né artificiale, ma tiepido. Questa è la storia di oggi: nella stanza c’è anche Elena, la figlia. Poche parole su ciò che va somministrato, su prescrizioni e informazioni, cosa può mangiare, che posizione va assunta a letto per respirare meglio; e poi c’è la mascherina, già, questa maledetta mascherina dell’ossigeno… Poi si passa a parlare d’altro, quasi per stemperare tensioni e preoccupazioni. Marta ha dei piccoli respiri. Tre parole e prende fiato, un fiato cortissimo. Mi dice di essere tranquilla, da quando ha firmato; Elena chiede permesso e si allontana dalla stanza.

Adesso siamo soli, Marta ed io. In una smorfia di pianto mi dice che firmando il documento aveva pensato alla sua libertà, la cosa che da sempre, da giovane, da piccola, l’ha spinta in tutte le sue scelte, quelle piccole e quelle grandi. Due capi di una fune tirata: da un lato questo spiccato senso di autonomia, che la porterebbe alla fine di quel dramma più presto possibile; dall’altro Elena, che la vorrebbe trattenere ancora, sempre di più, si trattasse pure di vederla sempre più immobile, attaccata ad una macchina che la mantiene in vita in modo artificiale.

E dove sta l’amore? Da quale parte propende? Dal lato della rinuncia a quella sopravvivenza forzata e inedita, per liberare sé stessa ed Elena da un carico insopportabile, o dal lato della macchina che allunga vita e sofferenza, riducendo Marta al suo corpo, sempre più inerte? Marta adesso piange. Pensa ad Elena; pensa a sé stessa. Non distingue più amore ed egoismo. Elena vorrebbe trattenerla; lei vuole andare via per liberare Elena da quel peso.

Questa è una storia futura: un giorno quel documento servirà. Un giorno (“speriamo mai, speriamo da nessuno!”) sarà letto da un medico che non potrò essere io, e che avrà davanti Marta in difficoltà respiratoria. Sarà solo anche lui, adesso; al bivio. Il documento gli comanderà di non procedere con interventi invasivi. Quindi farà altro, per allentare sofferenza e mancanza d’aria, senza colpire troppo, senza affondare, senza decidere per la fine di una vita. Sarà solo anche lui, ma ciò che è scritto, è scritto. Sarà solo anche lui, o forse quel pezzo di carta vorrebbe essere l’ultimo contatto con Marta, l’ultima stretta di mano in un accordo. L’unico contatto possibile fra due solitudini.

Elena sta protestando in silenzio, ma sa di avere forse torto. Forse. “Dove sta l’amore?” si chiede. Pensa quanto sia bello e doloroso amarsi, l’eterna storia delle relazioni umane, quelle che possono superare il tempo. Questa è una storia antica, forse immortale.

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