Quando la dolce Marianna | chiese di poter morire - Live Sicilia

Quando la dolce Marianna | chiese di poter morire

Nessuna legge può governare l’ingovernabilità dell’amore, se si parla di eutanasia.

Garofalo all'occhiello
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4 min di lettura

“Eutanasia” è una parola grigia. A volte, drammaticamente, è formulata sotto forma di richiesta, in stanze bianco-avorio, in letti freddi, tra lenzuola gualcite; esce fuori dalle maniche di vestaglie spente, insieme a mani bianche e scarne. Di solito segue una pausa piuttosto lunga, un frammento di meditazione, la ripresa di un fiato.

“Eutanasia” è una parola grigia come inchiostro che sbiadisce su libri e giornali che raccontano di proteste, denunce, rivendicazioni, e poi ancora toni smorzati, affievoliti in dei “lasciamo perdere, non ne parliamo”. È una parola grigia come il fumo di discorsi ideologici, distanti dalla realtà, come spesso succede alle ideologie. In questi giorni se ne sta parlando in Parlamento, si sta lavorando a un pensiero grigio che separa fronti opposti. E chissà se ancora una volta le ideologie stanno riempiendo di fumo quell’ambiente, dove si dovrebbe persino ragionare di felicità. Fumo grigio, appunto, invece di aria pura.

La realtà, quella senza fumo, è il ricordo di Marianna, paziente alla fine della vita, occhi sgranati e impauriti, di sfida. In una vita che si vuole spegnere per scelta, tutto sembra ineluttabile, irreversibile, definitivo. Come oggi, ricordo le sue mani bianche e scarne. Ascolto parole grigie-metallo che mi raccontano il suo dolore nel vedere due figlie, adorate, costrette ad abbandonare le proprie case, le proprie cose, per quell’ultimo frammento di vita da vivere insieme a mamma. Ma senza dirsi nulla, senza spiegazioni, nascondendo la verità, perché può fare male. Due figlie sempre presenti per tutto, per l’acqua, la minestra che non si può ingoiare, i bisogni da ripulire; da sola non ce la fa più. Tutto si svolge in un silenzio inespressivo. Ecco, questo è uno strazio insopportabile. Marianna si sente un peso; un peso non ancora morto, ma peggio che se lo fosse.

“Devo farla finita e lei mi deve aiutare”. Occhi sgranati e gelidi. Asciutti. Un tono imperativo può aiutare a superare il pudore di quella richiesta scandalosa. Io, seduto accanto a lei, i gomiti sulle ginocchia, proteso verso di lei. Le mie mani raccolgono le sue. Il silenzio è attraversato dal lento ticchettio di un orologio.

Ma non c’è da indugiare sul pensiero grigio; bisogna andare avanti. Vedo che sta soffrendo tanto, e non è un dolore fisico, ma un morso che nasce da dentro, da una coscienza frantumata. Parliamo per due ore a bassa voce, da soli. Marianna non ha mai condiviso le sue sofferenze con Francesca ed Emanuela, non se l’è mai sentita; una mamma protegge sempre da ogni possibile ferita, anche solo immaginata, i propri figli. Così è rimasta sola e la solitudine è un killer spietato. Eppure, parlare insieme di questo dolore, di questo tempo in esaurimento, di questa nostra vita che finisce, può servire davvero.

Forse è l’unica cosa sensata; questo le dico. Non deve preoccuparsi: manifestare la propria consapevolezza su ciò che si sta realizzando e condividerla non sarà, non potrà essere mai una ferita intollerabile per due figlie affettuosissime e così grandi, ora più che mai, come forse non le aveva ancora viste. Saranno in grado di sopportare quel dolore, sarebbe importante parlarne insieme, un momento carico di verità e di amore. ‘Sto morendo, ma siamo insieme’; in questo prezioso ultimo tempo, ancora insieme.

Adesso devo andare via. Faccio per alzarmi, ma lei mi trattiene, mi tira verso di sé e mi abbraccia. Piange. Tutto il mondo deve inchinarsi al cospetto di una vita che sta morendo. Comincia a pensare che non ci sia alcun bisogno di governare quel tempo, che non sia necessario troncare l’ultimo fiato per determinazione, per comando autonomo, per un ordine personale. Mi dice che se c’è bisogno di ritrovarsi insieme ancora adesso, come prima, come sempre, forse basterà questo per allontanare lo spettro di una morte premeditata. Marianna vuole pensarci un po’; ne riparliamo domani, o domani l’altro, o il giorno dopo ancora; se c’è un impegno da rispettare, non è ancora arrivato l’ultimo momento.

In quella stanza del Parlamento, dove adesso con tante parole, forse troppe, si parla di una sola parola grigia, è opportuno che ogni voce sia ascoltata, perché ogni coscienza possa essere rispettata. È giusto che davanti al tema ci si ponga il quesito più importante: se la vita sia un bene “indisponibile”, riconoscendo che ognuno di noi sia fruitore di una ricchezza che non si è dato da solo, oppure “disponibile”, ammettendo che su di essa non ci siano altre titolarità se non quella di se stessi.

Ma bisognerebbe prima di tutto pensare alla verità di molte nostre storie, a quanto, nell’ultimo tratto di vita, ci sia bisogno di continuare a vivere nell’unico modo nel quale vivere vale sempre. Davvero va tirato il freno di emergenza, su un treno che sta quasi per arrivare alla stazione? Davvero tutte le strade delle proprie relazioni, del proprio cuore, tutte le parole, anche quelle maledette, tutta la rabbia, tutto l’amore che no, non finirà neanche dopo, tutto il desiderio che non ci si lasci mai, può consentire di abdicare?

Una legge che vorrebbe garantire i diritti dell’ultimo miglio non potrà mai né impedire né assicurare che l’intero viaggio, fino all’ultimo, possa avvenire nella vitalità delle relazioni umane, la cosa più importante. Nessuna legge può governare l’ingovernabilità dell’amore; quello è affidato alla parte più intima di ognuno di noi. È così che siamo fatti.

 

 

 

 

 

 

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