"Chi camurria, sta campana" | Il bell’Antonio di Brancati - Live Sicilia

“Chi camurria, sta campana” | Il bell’Antonio di Brancati

Una nuova rubrica per rileggere le opere degli scrittori siciliani

INCHIOSTRO DI SICILIA
di
3 min di lettura

Diamo il via oggi a una nuova rubrica di LiveSicilia, affidata alla scrittrice Cetta Brancato. Con lei rileggeremo le opere degli scrittori siciliani. Un modo speciale per conoscere, o riconoscere la nostra terra.

Chi camurria, sta campana!

In un’alba romana del 1930, non si sa chi dei siciliani scapoli che alloggiano in un quartiere del centro, pronunzia questa frase. Potrebbe essere Antonio Magnano che, dal suo letto, lascia intravedere un corpo tanto fragrante da sembrare un biscotto appena sfornato. Bello sarebbe stato se uno di noi uomini, questo cittadino di Nazaret, fosse stato figlio di Dio, e ci aspettasse dall’altra parte con il suo corpo. – dirà in seguito, quasi alla chiusura del romanzo, Ermenegildo Fasanaro, lo zio di Antonio, confermando l’incolmabile distanza fra il richiamo di Dio e l’esistere che ogni uomo di Sicilia porta dentro se stesso quale tarlo d’immortalità e di cinismo. Ma il nipote, anche mentre ascolta queste dolenzie, non esprime un parere: ignora la tensione del dubbio, chiuso nel bozzolo di una vana innocenza.

Lui, è il bell’Antonio, per cui le ragazze di buona famiglia nelle funzioni domenicali, non appena entra in chiesa, sembra che l’altare maggiore si sposti ai piedi del suo fascino. Tornato da Roma, patria sempre sognata da giovani di belle speranze, approda nella sua isola per compiere la propria sconfitta. Accetta di soggiacere alle aspettative della famiglia in quella Catania, dalle cui ossa avevano preso i natali De Felice, Verga, Musco, Capuana, De Roberto, adesso governata dal regime fascista e il cui segretario federale altro non è che una bestia col pelo nel cervello che, se arrestato e perquisito gli si sarebbe potuto trovare nelle tasche la gentilezza, la pietà e la poesia rubate ad un intera generazione.

Antonio s’illude di essere accolto nell’agiata trappola dei salotti borghesi di una provincia feroce in cui, invero, accenderà la propria impotenza. Una rete fittissima di relazioni opportune e morbose, necessitate dall’imperio della genitalità maschile e dalla scaltrezza di quelle donne che da un lato ti accarezzano e dall’altro contano i soldi. Eppure, c’è stato un tempo in cui ha creduto di essere se stesso vivendo un amore con una donna straniera e tentando una carriera fra i meandri del potere romano di cui, in fondo, non nutre alcun interesse. Ninuzzo naufraga in un matrimonio con Barbara, la figlia di un notaio, erede di una famiglia di gesuiti dalla moralità ferrea. Un patto economico che egli crede un patto d’amore, mai suggellato da alcuna qualità del maschile.

Il giovane non sa penetrare il mondo e in esso la femminilità che, una volta cosciente della sua incapacità, gli si rivolta contro senza risparmio di colpi, chiedendo l’annullamento del matrimonio alla Sacra Rota. Aveva creduto la moglie una donna del cielo e che ella si sarebbe potuta adattare ad un’unione senza trasporto, ad una donazione stentata incaace di mettere alla prova la sua mente e il suo corpo. Seme interrato in una società debole, tuttavia corazzata da perbenismo corrotto, viene condotto al proprio destino, da una madre virtuosa e da un padre con la roba allocata nell’anima. Il giovane uomo, per cui ogni donna si strugge al suo sguardo, ha la fatuità dell’impotenza, non solo carnale.

Ninuzzo non ha nulla negli occhi tranne la sua bellezza in un riparato destino di sconfitta. Non può dirsi privo di ragioni poiché ha una struttura imprestata ad una vena borghese d’acciaio. Possiede un adeguato senso dell’onore ma senza tempra, è erede di un patrimonio che custodisce sortilegi e boria, è sfamato da tutto ma non desidera nulla che, davvero, gli torca le viscere. Non genera se stesso: rimane alla superficie dell’esistere. È impaurito ma senza disperazione, è superficiale ma senza leggerezza, è forse un depresso adeguato ad una qualità esistenziale, mai degna di un rammarico profondo che, in qualche modo, gli faccia alzare la schiena.

Il bell’Antonio è, ancora, quel figlio privo di qualsivoglia vocazione, quel compagno di vita che non sa condurre davvero a nozze, quel padre che, seppure fertile, non sa amare: un uomo generato dalla fatuità delle nostre certezze. Insomma, Ninuzzo è un bamboccione adulato, pericolosamente innocuo.

Una creatura profeticamente contemporanea: impotente, sì impotente alla vita.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI