Dora, 'l'agghiaccio', il diluvio | Una festa di fine estate - Live Sicilia

Dora, ‘l’agghiaccio’, il diluvio | Una festa di fine estate

Era già tutto. E non lo sapevamo.

Garofalo all'occhiello
di
5 min di lettura

Che l’estate fosse finita ce ne eravamo accorti tutti. Silenziosi e rabbuiati, qualche giorno prima ci si era dati da fare per raccogliere armi e bagagli e ‘scendere’ a Palermo. Succedeva sempre così; quelli erano gli anni in cui a settembre, alla fine delle vacanze, si ‘scendeva’ a Palermo. Non era importante se i luoghi di villeggiatura fossero davvero posti geograficamente su un livello del mare superiore rispetto alla città, com’era comprensibile per i luoghi collinari e montani vicini; nel lessico abituale dei metropolitani si ‘scendeva’ a Palermo anche da Trabia, da Capaci, da Terrasini e da tutti gli altri luoghi marini di villeggiatura.

Da sempre e per sempre, vai a capire perché. Settembre era un mese ineluttabile. Era la resa dei conti di tutti i “… poi, a settembre, se ne parla”; il tempo della ripresa di tutto, dopo la pausa catatonica di agosto; del ‘dopo’ che a volte, distrattamente, di nascosto, si sperava divenisse un ‘mai’. Era la riapertura delle palestre e la riproposizione dei perenni propositi di dimagrimento. Per gli studenti, era la metafora del giudizio universale, il purgatorio dantesco di chi doveva “riparare” qualche materia andata male, lontani dal paradiso dei promossi a giugno e dall’inferno dei bocciati. Certi professori, nel giorno degli esami, vedevano al loro cospetto facce dalle espressioni sofferte e smunte, che avresti definito malaticce, se non fosse per le splendide abbronzature, segno inequivocabile di lunghi momenti lontani dai libri.

Quel giorno di metà settembre, in un settembre bianco e nero anni ’70, il mio amico Maurizio aveva organizzato tutto alla perfezione: i suoi erano ‘scesi’ in città la domenica prima, il campo era libero. Il momento propizio per la festa di fine estate al villino aveva previsto una sortita preliminare, il giorno prima, per disporre tutto a dovere: i tavolini nel saloncino, dove sistemare i vassoi; poche sedie ai bordi della stanza, lo stereo, le luci adatte, pronte a presentarsi soffuse al momento giusto. Fuori, in giardino, il noce, il castagno e il melograno, vestiti del loro autunno.

Alla festa sarebbe venuta anche Dora, suo sogno proibito; “questa è la sera giusta”, mi aveva confidato. Tutto era pronto. Nel pomeriggio avevamo un appuntamento per ‘salire’ insieme al villino, lasciando per qualche ora la città, con i suoi fumosi caldarrostai agli angoli delle strade e le prime pozzanghere di stagione. Dora, con un corteo regale di fedelissime amiche al seguito, ci avrebbe raggiunto poco dopo. In macchina, strada facendo, c’era un concitato dibattito su argomenti di poco conto; quello che saltava agli occhi e che divenne l’oggetto dei più duri sfottò, era l’emozione di Maurizio, da bocca asciutta e moderato stato di agitazione psicomotoria.

Arrivati a destinazione, ecco il dramma: nella notte era piovuto parecchio e il pomeriggio prima Maurizio aveva dimenticato tutte le imposte aperte. Per terra trovammo quattro dita d’acqua, i tavolini con le tovaglie erano zuppi; tutto era un galleggiare; sedie, poltrone e divano parevano affondati insieme al Titanic. Solo lo stereo, distante dalla finestra, si era miracolosamente salvato. Neanche il tempo di elaborare la catastrofe e cercare di porre rimedio, che dietro di noi giunse la macchina regale di Dora.

Maurizio, più che vaghe fantasie di morte, a quel punto cominciò a concepire un marcato desiderio di non essere mai nato. Il noce, il castagno e il melograno lo guardavano con sincera compassione. Ed ecco ciò che nessuno avrebbe mai sospettato: Dora, senza perdersi d’animo, rimboccati gli eleganti pantaloni sopra le ginocchia e inforcate un paio di pianelle di fortuna, con tanto di secchio e stracci, non ebbe alcuno scrupolo nell’assumere le sembianze di una lavascale, insieme a tutti gli altri. In pochi minuti la scena dei formali preliminari dell’inizio di una festicciola si era trasformata nella sequenza di immagini di un servizio televisivo sull’alluvione di Firenze.

Maurizio, combattuto tra la necessità di darsi da fare e una forza interiore che lo bloccava rendendolo di marmo, viveva in silenzio il consumarsi di un’atroce malafiùra. Eppure, a ben vedere, la perdita della presunta regalità di Dora era falsa: quel suo adoperarsi fra catini pieni d’acqua e stracci inzuppati, quel braccio ad asciugare a tratti la fronte dal sudore e a scostare i capelli dagli occhi, quel suo scherzare nonostante tutto, la rendevano più umana e simpatica, e, per questo, più regale ancora. Maurizio la guardava e si sentiva perso. Alla fine, quando un corale “Oooh!” sentenziò la fine di quel dramma, mentre tutti si ricomponevano cercando di riacquistare le sembianze più consone alla festa, Enrico sistemò il primo 45 giri sul piatto, per iniziare le danze.

Ma sbagliò clamorosamente: voleva favorire una pacificazione generale lanciando un lentaccio ruffiano, perché ci si potesse stringere in coppia a scaldarsi, visto il freschetto che tirava anche dentro casa. Ma venne subito bloccato da Ciccio, il più spiritoso: “…ma che fai! Ci penso io, va!”, e piazzò un bel “I gotha”, di Joe Tex, ritmato di brutto. Molti si ricordano ancora di quel pezzo da urlo, e di quel verso “I gotha!, aha, ah…” che in palermitano divenne per tutti “agghiaccio! aha, ah…”. Così sbeffeggiavamo il freddo di quella stanza, saltando e dimenandoci goffi e divertiti. Ciccio, ballonzolando in modo sgraziato, pareva il darwiniano anello mancante fra l’uomo e lo scimpanzé; Maurizio non riusciva ancora a sciogliersi in un abbozzo di sorriso.

Ci pensò Dora stessa a confortarlo dopo un po’, quando il momento dei “lenti” si era fatto maturo. Uscirono fuori, in giardino, ad un certo punto, nonostante il freddo. Il noce, il castagno e il melograno ne sono testimoni. L’autunno rivestiva di nebbiolina e aria di pioggia la nostra intima primavera. Eravamo allegri, con le nostre barbe e l’aria da intellettuali, filosofi da pane e panelle, con la consapevolezza che il “meglio” dovesse ancora arrivare. Ma il nostro “meglio” che deve ancora arrivare era già arrivato. Solo che non ce ne eravamo accorti. Se almeno uno, fra noce, castagno e melograno, ce l’avesse detto …


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