Scazzi, baruffe e poi... serenate | 'Miccimeci', un amore impossibile - Live Sicilia

Scazzi, baruffe e poi… serenate | ‘Miccimeci’, un amore impossibile

Non potranno mai amarsi davvero, perché sono personalmente diversi. Ma la Sicilia è nelle loro mani.

Il doppio ritratto
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Sotto la spuma della politica siciliana, oltre gli scazzi tra governo e Parlamento, i guanti di sfida, la voglia di dare la colpa a qualcuno, chiunque sia, per i conti in rosso, in un clima, insomma, da si salvi chi può, scorre la striscia, un po’ malinconica per i romantici, di un amore impossibile: quello tra il presidente della Regione, Nello Musumeci, e il presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè.

E siccome le vicende delle istituzioni, delle regioni e delle nazioni si tessono secondo le trame che legano o dividono gli uomini singoli, chissà che non sia utile, tra il serio e il faceto, con una maggiore pressione sul secondo registro, compiere qualche indagine empirica a riguardo.

Chissà che non ci sia un po’ del destino della Sicilia nello sfiorarsi circospetto di due uomini che non potranno mai essere davvero compari, che non saranno mai una cosa sola, una sintesi, un immaginifico MiccimeciDel resto, lo stesso Miccichè si è lasciato sfuggire quasi un lapsus nell’ultima requisitoria avverso la giunta, parlando di “amarezza” di una frattura “non politica, ma personale”. Tra i due nemmeno le sfumature coincidono.

Il segmento onirico, tanto per cominciare. (Nello) lo vedresti bene su uno scoglio a scrutare il mare in tempesta, a cantare serenate sotto una finestra al chiaro di luna (consiglieremmo, casomai, l’immortale ‘Cocciu d’amuri’ di Lello Analfino’), in garbata fila al buffet di un matrimonio ad aiutare le signore anziane a turno. 

(Gianfranco) sarebbe, secondo libere, surreali e del tutto campate per aria associazioni, perfettamente a suo agio nel bar di ‘Happy Days’, a brutto muso con Fonzie, un sovranista ante-litteram, geloso del suo territorio, che ha preso troppo campo, scatenato in un ballo pirotecnico con la più carina, e non la più cretina, accovacciato, in rapido agguato, per mangiare i confetti delle vecchiette del banchetto nuziale, lasciate sole e indifese, in un attimo di assenza di Nello.

Proprio di Gianfranco M., nell’occasione di un compleanno, scrisse un ritratto corrosivo ‘l’amico’ Diego Cammarata: “Madre natura si è presa gioco degli esseri umani, ha preso una di quelle macchinette che producono popcorn e l’ha fatta diventare Gianfranco Micciché. Badate bene, questa non vuole essere una mancanza di riguardo ma è come io ho sempre visto nella mia immaginazione il turbinio delle idee che andavano su e giù per la sua testa (pensate al movimento dei popcorn all’interno della boccia). Si tratta di un vagare incontrollato che spesso lo porta a trovare soluzioni che sono solo il frutto del suo intuito ma che nella loro apparente irrazionalità centrano inaspettatamente il segno”.

E poi il linguaggio. Se Micci non batte ciglio nel dare dello str... (ehm) a Salvini, successivamente, chiamando in causa Hitler; al culmine dell’ira, Meci ha esclamato: “Forse ho fatto fin troppo il presidente istituzionale. Sono cattolico ma ho due sole guance. Da questo momento non faccio più sconti a nessuno”. Il riferimento alle guance è una citazione non si sa quanto involontaria di un celebre aforisma di Giulio Andreotti, tirato fuori dal cassetto delle tradizioni popolari.

Ancora differenze? Basta annotare come i due si raccontano. Musumeci confessò ad Aldo Cazzullo del ‘Corriere’: “Ero nell’Azione cattolica, però trovavo i democristiani troppo arrendevoli. Vidi in tv i carri sovietici a Praga ed ebbi un moto di ribellione. In casa la patria era importante. Papà nel 1936 era in Africa, poi combatté la Seconda guerra mondiale in Aeronautica, dopo lo sbarco in Sicilia obbedì all’ordine di consegnarsi agli inglesi con la morte nel cuore. Guidava i pullman; in fondo lo stesso mestiere del nonno, vetturino, e del bisnonno, cocchiere. Io sono orfano di madre. L’Msi fu famiglia e scuola”.

Dalla penna di Marianna Rizzini, per ‘Il Foglio’, in un ritratto un po’ datato, traboccarono la fisionomia e le parole sincere di Micciché: “A ventinove anni Miccichè, dopo qualche anno di lavoro nella banca dove era entrato, dice, ‘grazie a mio padre, cioè per raccomandazione’, era stato promosso capoufficio: ‘Una carica che arrivava di solito dopo i quarant’anni. Il problema fu che la promozione me la comunicò mio padre, e non il direttore generale o un alto dirigente. Non accettai. Capii che sarei stato sempre, lì dentro, un figlio di… Mi licenziai e quella stessa sera, per incazzamento, me ne andai a Milano a trovare mio fratello. Lì incontrai per caso Marcello Dell’Utri, che poco tempo prima mi era stato presentato dal mio amico Ferruccio Barbera. Dell’Utri mi disse che stava cercando persone per Publitalia. Io ero libero da tre ore. Feci il colloquio e il lunedì successivo firmai da Berlusconi”.

Due mondi lontanissimi. Il marketing inodore dei manager e l’acre essenza olfattiva delle sezioni. Berlusconi e Almirante. L’azienda e la patria. E ancora a mille ce ne sarebbe da narrare.

Ecco perché non sarà mai ‘Miccimeci’, anche se ogni tanto suona la serenata (“Affaccia bedda e senti ‘sta canzuni. La canto sulu a tia cocciu d’amuri), dall’una o dall’altra sponda, poiché gli opposti provano sempre una curiosa attrazione tra di loro. Ma questa è davvero la storia di un amore impossibile: il titolo è scontato. Gli anni a venire mostreranno, invece, la combinazione di tutti i sottotitoli possibili.


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