Il canto di Natale di Palermo | Questa città non sa più sperare - Live Sicilia

Il canto di Natale di Palermo | Questa città non sa più sperare

Cosa ci dicono queste feste a Palermo, nella città del disagio.

Le feste tristi
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Se tra noi ci fosse un Dickens come racconterebbe il triste canto di Natale di Palermo? Quanti Scrooge senza spiriti calati a redimerli scoverebbe in certe case patrizie che hanno costruito la propria fortuna sulla sfortuna di qualcun altro? Quanti poveri e malati, appesi a una gruccia, descriverebbe, nella difficoltà di trovare un balsamo o un’anima convertita alla generosità per sanarli? E quanta nebbia respirerebbe, prima di riportarla, nitida, sul biancore della pagina nel tentativo di diradarla?

A Palermo c’è la nebbia, anche se non si nota. E’ il grigiore cupo dei suoi respiri pesanti, il colore della speranza che manca, che è sparita e che non riesce a ritornare.

Noi, cronisti di periferia, possiamo soltanto descrivere il marciapiede rotto, la strada diroccata, l’invivibilità quotidiana, il caos a cui si oppone un vagito di rabbiosa rassegnazione. Ma ci vorrebbe proprio un Dickens per cogliere ciò che è talmente visibile da risultare nascosto: la speranza che non c’è più. Ed è già questo il profondo segno di uno smarrimento per una città che, nella sua storia recente, ha molto vagheggiato di essere diversa dal suo peggio e adesso, semplicemente, non saprebbe nemmeno da dove iniziare.

C’era, infatti, una volta la città che guardava al futuro e in questo consisteva la lenta costruzione della sua fiducia. I suoi artisti, i suoi intellettuali davano battaglia all’arroganza del potere e creavano visioni alternative. Le persone cercavano luoghi per incontrarsi. Tante? Poche? Non importa, c’era comunque un darsi in pegno, una comunicazione di vite vere.

E c’era una coscienza collettiva, una opinione pubblica, con cui tutti dovevano fare i conti. E c’erano movimenti che, intorno al fervore, sapevano organizzare una politica ribelle, di base, che non fosse intessuta soltanto di rancore. E adesso? Adesso artisti e intellettuali, in maggioranza, nulla hanno da obiettare sui manovratori, pure quando sbandano: sono educati, comprensivi con la classe dirigente al timone, casomai si occupano del folclore o dell’accompagnamento bandistico. Non ci sono fremiti comuni, né collettività pensanti, se si eccettua la piazza come riflesso condizionato di un riflesso.

Non esiste una parola illuminata, o semplicemente consapevole, pronunciata per il domani. Celebriamo il passato, gli eroi, giustamente, i santi e i martiri, presunte età dell’oro, organizziamo convegni e riti funebri e non mettiamo in campo uno sguardo puntato sulle porte che prima o poi verranno spalancate. Quel pizzico di futuribile che si intravvede è prigioniero di cambiamenti culturali enunciati e dogmatici, senza il permesso del dissenso a cui, nel caso si manifestasse, riservare l’esclusione – vecchio vizio – dalla società civile. Ma dove non c’è la libertà del difforme, come può esserci l’urgenza della partecipazione?

Forse abbiamo sperato troppo, fantasticando palingenesi e rivoluzioni, senza mai accontentarci di un quieto riformismo, delle riparazioni utili, dei lavori in corso in grado di approdare. Forse siamo stanchi. Il risultato è un disagio rovente, una sensazione di estraniamento da esuli in patria. No, non speriamo più, si vede nelle facce, nei discorsi, o meglio nella loro assenza, nell’inerzia con cui il tempo si conduce. Ogni palermitano vive tappato a casa sua, rifuggendo responsabilità e confronti, rifiutando, come un amante tradito, il fardello della cittadinanza.

Palermo, così, è una capitale-teatro per visitatori occasionali, ma non abbraccia, né seduce, né protegge coloro che la abitano. Le anime sante, gli spiriti dei Natali delle conversioni, viaggiano lontano, in storie diverse per libri e lettori migliori. La città piena di nebbia che non sa più sperare: ecco il titolo. Ma almeno non c’è un Dickens che la racconti, aggiungendo pena alla pena.


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