"Riina con il telefonino in cella"| Il giallo, l'inchiesta, la smentita - Live Sicilia

“Riina con il telefonino in cella”| Il giallo, l’inchiesta, la smentita

La nota dei servizi segreti

Il padrino aveva davvero un cellulare a Rebibbia nel '93. Dai sospetti all'altra verità

PALERMO – “Totò Riina aveva un telefonino in carcere, a Rebibbia, nell’agosto del 1993”. È giallo al processo di appello sulla Trattativa Stato-mafia. Nuove ombre si addensano sulla stagione a cavallo delle stragi di mafia, di quelle ombre difficili da diradare a distanza di decenni. Chi ha aiutato il padrino corleonese? Anche questo favore rientra nel presunto patto sporco fra i boss e i rappresentanti della istituzioni?

Eppure la vicenda del telefonino di Riina fu oggetto di un’inchiesta, archiviata dalla Procura di Roma. La procura generale di Palermo ha disposto nuovi accertamenti sul caso e interrogato rappresentanti delle forze dell’ordine, direttori del carcere di Rebibbia, agenti di polizia penitenziaria, impiegati del Dap e del ministero. “Dicerie carcerarie”, dicono molti dei protagonisti di allora, smentendo la notizia. Impossibile che la circostanza fosse sfuggita ai tanti uomini che lo tenevano sotto controllo.

È stata una deposizione, dello scorso ottobre nel carcere dell’Ucciardone, ad alimentare il nuovo capitolo investigativo. Nessun risultato concreto. Anzi, pare che ci siano gli elementi per dire che il giallo del telefonino tale non sia. È stato il giudice Andrea Calabria, nel 1993 in servizio al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e oggi presidente di sezione della Corte d’Appello di Roma, a raccontare che in quell’anno una nota dei servizi segreti, girata dal capo della polizia Vincenzo Parisi, aveva fatto suonare l’allarme.

Ed eccola la nota, datata 22 ottobre 1993: “Si è fiduciariamente appreso che durante i primi di agosto corrente anno il noto Riina Salvatore sarebbe stato sorpreso nel mentre, all’interno della sua cella, telefonava, servendosi di un apparecchio cellulare. I quattro agenti di custodia in servizio di vigilanza al detenuto, immediatamente interrogati, avrebbero ammesso di avere ricevuto la somma di 40 milioni a testa, per consentire al Riina di telefonare”.

Il fatto, di per sé eclatante, non è stato di certo insabbiato. La Procura di Roma nell’immediatezza aveva aperto un’inchiesta. Ad occuparsene fu il pubblico ministero Andrea Vardaro che, tra gli atti eseguiti, il 29 aprile 1994 convocò il tenente Franco Battaglini, l’autore della nota riservata dei servizi segreti. Al pm raccontava che “le notizie le ho apprese da una fonte confidenziale della quale non intendo riferire il nome”. La fonte “a sua volta mi ha riferito di una voce che girava all’interno del carcere”. Insomma non era una notizia che la fonte conosceva direttamente.

Il pm dispose di acquisire le videocassette con la registrazione della vita carceraria di Totò Riina, seguito h24 in tutti i suoi spostamenti. Esito negativo: del telefonino non c’era traccia. Da qui la richiesta di archiviazione accolta dal giudice per le indagini preliminari Matilde Cammino il 26 febbraio 1994.

Caso chiuso, almeno fino allo scorso ottobre quando Calabria ha riesumato l’episodio, aggiungendo che fu egli stesso a chiedere il trasferimento di Riina in un altro carcere, a Sollicciano (Firenze), proprio in seguito all’episodio del telefonino. Il provvedimento però, sempre secondo la versione di Calabria, fu stoppato da un altro magistrato, Francesco Di Maggio, vicecapo del Dap, scomparso nel 1996. Secondo i pm di primo grado, Di Maggio avrebbe partecipato alla stagione della Trattativa nella fase in cui fu tolto il regime del 41 bis – il carcere duro – ad una serie di mafiosi. Segno che, sostiene l’accusa, lo Stato stesse facendo concessioni ai boss.

Calabria lo scorso ottobre ha pure ricordato che, alla sua richiesta di chiarimenti, gli fu risposto che il carcere di Sollicciano non era una struttura adeguata ad ospitare Riina. Circostanza che gli parve “strana” visto che il carcere aveva già ospitato mafiosi e pericolosi terroristi di estrema destra.

Senonché la segnalazione dei servizi segreti fu girata dal capo della polizia al Dap il 12 novembre 2014 e cioè dopo la richiesta di trasferimento di Riina da parte di Calabria che è del 30 luglio. Dunque non può essere stato il caso del telefonino a suggerire l’opportunità di allontanare il capomafia da Rebibbia.

Forse c’è un’altra ragione. Il giorno prima si era suicidato in carcere Antonino Gioè. I sostituti procuratori Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, che rappresentano l’accusa al processo d’appello sulla Trattativa, lo scorso 16 dicembre hanno sollecitato la memoria di Calabria, ricordandogli la concomitanza della richiesta di trasferimento di Riina con la morte a Rebibbia. Risposta di Calabria: “… evidentemente a distanza di vent’anni ho sovrapposto il ricordo… prendo atto che il 29 luglio si è verificata la morte di Gioè e non posso escludere che ci sia un collegamento con il trasferimento di Riina disposti il giorno ”. Dunque, la storia del telefonino nulla c’entra. Sono passati tanti anni e le certezze di ottobre sono venute meno.


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