La ragazza che voleva la libertà | L'altra Rosalia di Clelia Lombardo - Live Sicilia

La ragazza che voleva la libertà | L’altra Rosalia di Clelia Lombardo

La scrittrice definisce la morte di Lia Pipitone come uno scrigno drammatico.

INCHIOSTRO DI SICILIA
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Clelia ha ordine in fondo agli occhi, una compostezza verde in cui si può trascorrere non so quanto tempo come riposando. Una pazienza vivissima che ti insegna a comprendere l’amore. Qualità che rapisce coloro che, come me, hanno l’anima sempre un pò altrove, ai bordi di un verso da trovare.

Durante i nostri incontri rari e preziosi parliamo di scrittura e, allora, le sue iridi s’illuminano di spontanea clorofilla.

Ho sempre immaginato la sua pagina nitida e coerente come se un’acqua immateriale, di volta in volta, deterga virgole, consonanti e le ordinate vocali.

Accanto a lei penso a quanto sia vero che il coraggio passi da donna a donna. O, almeno, fra quelle che tali tendono a diventare o sono diventate.

Perché a una donna la propria solitudine non basta. Non soltanto perché ogni atteggiamento anti lirico la nasconde danneggiando il suo mondo, ma perché, ancora raramente, si compie la sperimentazione sociale del suo dissenso.

L’alleanza femminile rimane rivoluzionaria ma riservata all’intimo, laddove passa la cucina, il letto, la crescita dei figli e la necessità della loro educazione sentimentale, insomma perfettamente aderente ai pregevoli ruoli sociali che le appartengono.

Ma se rivisita la propria posizione nella storia in maniera critica e indipendente, allora o assume ruoli con determinazione maschile o, bene che le vada, diventa la patrona della città di Palermo, una Santa Rosalia, destinata all’eremo di un’altra miracolosa solitudine.

Insomma, il passaggio dal focolare al rogo di un’ascesi o dell’inferno, spesso, diventa immediato.

Come quello di Rosalia Pipitone, “La ragazza che sognava la libertà”, tornata in vita nelle pagine di Clelia Lombardo, uccisa, ancora giovane, con il consenso del padre nel 1983 e dichiarata vittima di mafia solo nel 2018.

La scrittrice definisce la sua morte come uno scrigno drammatico legata ad un patriarcato ossessivo e pericolosissimo.

Lia era libera , troppo libera per essere l’altra metà del cielo della mafia.

Così viene uccisa in un agguato in cui viene inscenata una rapina, lasciando il figlio di pochi anni che ha il tempo di raccomandare al marito.

Clelia incontra casualmente Alessio Cordaro, il figlio ormai adulto, cresciuto lontano dalle insidie mafiose che, insieme al giornalista Salvo Palazzolo, ha appena scritto un libro dal titolo “Se muoio sopravvivimi”, dai versi di Neruda cari alla madre, in cui ripercorre il suo rifiuto di donna alle regole di Cosa Nostra.

Da insegnante, Clelia decide di raccontare questa tristissima fiaba alle sue alunne che, nell’ascoltarla, si commuovono e, soprattutto, si indignano. Poi la scrive, a loro misura, con il loro linguaggio nei riti e nelle pause che appartengono all’adolescenza.

Da ottima drammaturga avrebbe ben potuto utilizzare un linguaggio che le è congeniale per far rivivere questa nostra Ifigenia piegata alla morte per il volere di un diabolico olimpo dell’Arenella. Invece, la traduce in parole adatte affinché la memoria di Lia ritorni viva fra le nuove generazioni e la solitudine femminile non diventi, ancora una volta, un sudario nel silenzio civile.

Perché uno scrittore conosce l’obbligo di sostenere la crescita delle giovani coscienze nel valore della rivolta quale elemento fondante della formazione del pensiero e sa bene che i quotidiani dinieghi e assensi che appaiono innocui diventano, invero, scelte su cui può fondarsi la rassegnazione e, perfino, la sottomissione.

La scrittura, almeno quella che emerge dalle cantine dell’anima, reimposta la realtà a misura dell’esistenza.

Viviamo sottoposti al rischio di non essere mai stati al mondo se, privi dell’identità della memoria, permettiamo che in noi si compia quell’omologazione che ci rende invisibili, adatti ad ogni nichilismo e ad ogni moda.

E Clelia Lombardo con queste pagine insegna a coloro che non hanno visto, perché non nati ancora, a valutare la tempra della propria libertà.

Eschilo non mette sulla scena Ifigenia tanto gli appare ingiusto il delitto.

La fa narrare al coro: bella come un dipinto, con gli abiti nuziali e la benda sulla bocca.

Aveva i dardi negli occhi, la giovane, quando comprende che dietro agli abiti degli assassini si nasconde il pugnale.

Gli stessi occhi di Lia che ci ricorda Clelia, spenti a due passi dal mare, dove la morte vestita da inganno, per mano del potere, viola la vitalità di ogni possibile scelta e, con essa, perfino l’esistere.


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